1904: il raid Dehly-Bombay vinto da due alessandrini [Alessandria perduta]

Boccassi 1di Ugo Boccassi

 
Aveva fatto sensazione, nel 1907, la notizia che il principe Scipione Borghese ed il giornalista Luigi Barzini si stavano preparando per affrontare un raid davvero audace, il percorso Parigi-Pechino, di 16.000 chilometri, in automobile. Ha fatto sensazione la notizia che, pochissimo tempo fa, Overland e l’Automobile Club d’Italia hanno riproposto l’eccezionale avvenimento con la stessa automobile di cent’anni prima, la famosa Itala.

Allora affascinavano mille motivi, che andavano dal correre su strade (dove esistevano) ignote alla scoperta di luoghi e culture esotiche. Riassaporare, in epoca moderna, l’atmosfera del tempo che fu e l’avventura è altrettanto intrigante e appassionante elemento.

Credo che l’antica impresa sia così profondamente incastonata nella storia dell’epopea motoristica che, almeno per sentito dire, tutti conosciamo i fatti. Anch’io, naturalmente.
Pensate, quindi, alla mia emozione allorché, sul nostro giornale “L’Osservatore” del 1904, ho letto questa stringata notizia: «Il 7 gennaio il conte Giulio di Gropello ha partecipato con la Fiat 24 cavalli ed ha vinto il raid Dehly-Bombay, aggiudicandosi le coppe dei rajah di Bempur e di Swahor». Stringata cronachetta fin che si vuole, ma sufficiente per far scattare una ricerca di dettagli più ampi.

Forse non si trattava della Parigi-Pechino, ma ben tre anni prima un’impresagropello tarino insospettabile era stata compiuta in India, da alessandrini, nella prima gara automobilistica di quel Paese. Altre poche righe tratte dalla solita Internet: la distanza era di circa 900 miglia ed era sotto gli auspici dell’Unione del Motore dell’India Occidentale (sic!). Il maharajah Galkwar di Baroda offriva una splendida coppa al vincitore ed il rajah di Kapurthaia ed altri principi erano fra i donatori. Una delle regole era che la velocità durante la corsa non dovesse eccedere le 30 miglia all’ora.

Nulla di più, tranne una pletora di nomi del nobilame indiano sulla cui esattezza non potrei giurare. Ma il nome del guidatore era di per sé traccia importante per una fonte più ampia.
Nostro buon amico e sostenitore è il conte Carlo Gustavo di Gropello, ovvio discendente del pilota. Interpellato, come sempre cortesemente ci ha risposto e di buon grado ha dato ampio riscontro sull’episodio.

«INDIA, 1904: DUE PILOTI ALESSANDRINI ALLA CORTE DEL NAWAB (NABABBO)
I primissimi anni del 1900 coincisero anche con l’inizio di vita della FIAT, fondata nel 1899 dal conte Emanuele Cacherano di Bricherasio, insieme ad altri sei soci minoritari tra i quali un giovane Giovanni Agnelli senior e subito fu sentita l’esigenza di far conoscere la nuova casa automobilistica anche al di fuori d’Italia. Uno dei mezzi più promozionali era la partecipazione a gare internazionali, raids, mostre e trofei vari. Tra questi ultimi eventi, si ricorda la spedizione in India, nel 1904, dell’alessandrino conte Giulio Figarolo di Gropello-Tarino, brillante ufficiale di cavalleria nonché viaggiatore ed esploratore, amicissimo di Giovanni Agnelli, anch’esso ex ufficiale di cavalleria. Accomunati dalla stessa passione, avevano insieme, anni prima, da sottotenentini di guarnigione nel “Savoia Cavalleria” a Verona, sperimentato uno dei primi motori a scoppio. Giulio di Gropello era quindi partito da Torino alla volta del lontano grande Paese asiatico, nel novembre 1903, su di una Fiat 24HP convenientemente attrezzata dopo aver ottenuto un congedo di aspettativa di un anno. Accompagnato dal suo primo cugino, conte Emilio Figarolo di Gropello, pure lui alessandrino ed ex ufficiale di cavalleria, si prefiggeva di partecipare (dopo un viaggio pieno di inimmaginabili peripezie) alla gara automobilistica Dehly-Bombay, di 1.417 chilometri, accidentati oltre ogni dire. La gara, con numerosi premi, era stata indetta dal nawab dello Stato di Rampur. “Nawab”, tradotto in italiano “nababbo”, è poi diventato sinonimo di straordinaria ricchezza. Infatti, a quell’epoca, sua altezza Hamid Alì Khan, solo per la sua raffinata tavola, disponeva di ben 100 cuochi, ciascuno adibito ad una specifica pietanza! Gli stessi dominatori inglesi lo tenevano in gran conto e lo salutavano solennemente con 15 salve di artiglieria ogni qualvolta il maharajah si presentava in qualche cerimonia, accompagnato spesso dal proprio esercito, composto da due battaglioni di fanteria e quattro squadroni di cavalleria splendidamente montati. La vittoria dei nostri piloti, come riferito, fu riccamente premiata».

Insomma, con metafora pseudo etimologica, gli “alessandrini” vinsero laddove Alessandro Magno non riuscì a giungere.
Rimane comunque, come per tante altre vicende, la soddisfazione di essere stati dei pionieri, ma un po’ di amaro in bocca per non essere stati storicamente accreditati con rilievo.