Palestina: un viaggio per non dimenticare

Fiocchi-Walter_magdi don Walter Fiocchi.

Da anni, prima con Mons. Charrier e poi con alcuni amici, organizziamo ogni anno un “viaggio” in Palestina, o in Terrasanta, o nella Terra del Santo, o in Israele… La difficoltà di una dizione univoca dice già la difficoltà di un tale viaggio: molti sono i problemi in cui ci si immerge.

E ho scritto volutamente “viaggio”, come se di un itinerario culturale e turistico si trattasse; anche se normalmente si direbbe piuttosto “pellegrinaggio”. Ma se alla partenza i partecipanti sono “viaggiatori”, ciascuno con la sua storia, alcuni con un retroterra di fede, molti altri non credenti, tutti “in ricerca”, poco per volta per tutti il viaggio diventa un autentico “pellegrinaggio”, che poi è allegoria della vita umana stessa. La bellezza dei luoghi, la suggestione, le emozioni suscitate da alcuni incontri e momenti di spiritualità, alla fine fanno portare a casa la sensazione di aver vissuto qualcosa di unico ed irripetibile, ovvero la “condivisione” di questa bellissima esperienza con un gruppo di persone, per lo più sconosciute o conosciute solo superficialmente, con le quali si crea una duratura amicizia. E la “condivisione” della vita di un intero popolo, meglio di entrambi i popoli che lì vivono… male entrambi!

OLYMPUS DIGITAL CAMERACon questi “viaggi” vogliamo rispondere all’appello del Patriarca di Gerusalemme Mons. Twal: “Vi siamo riconoscenti per gli aiuti concreti che non fate mancare alla Terra Santa ma non dimenticatevi che abbiamo bisogno di giustizia e di pace!”. Questi pellegrinaggi vogliono appunto aprire il cuore al dolore e alla paura che segnano la vita di questi popoli spalancando gli occhi sulle ingiustizie di cui milioni di esseri umani sono vittime quotidiane.

E quest’ultimo viaggio è stato appunto un crescendo di immersione nel concreto della vita e delle storie di sofferenza, di discriminazione, di apartheid, di violenza, di strategia politica, devastante in prospettiva futura, che non si può non vedere e non sentire sulla propria pelle.

Giorno dopo giorno, incontro dopo incontro, siamo sempre più penetrati nel grado di prostrazione, umiliazione e oppressione che i palestinesi vivono da decenni soprattutto nei Territori occupati. Possiamo anche attestare la logica di nonviolenza che i palestinesi esercitano ogni giorno nelle centinaia di check-point che frantumano le loro esistenze personali e familiari. Ma abbiamo anche rilevato che la speranza si sta perdendo giorno dopo giorno, logorata dalla disperazione di una vita senza dignità, senza orizzonti di pace, nella totale assenza di “volontà positive” di evoluzione della situazione. Giorno dopo giorno abbiamo avvertito la tensione crescente, visto le volute provocazioni che mirano a suscitare una qualche reazione violenta che darebbe mano libera alla potente reazione armata dell’esercito israeliano occupante.

“Non abbandonateci! Interessatevi di noi e della nostra vita strangolata dal sistema di permessi e restrizioni militari, espropriata, come la nostra terra natia, murata viva da quel muro illegale e immorale” è il messaggio che abbiamo ben colto negli incontri: il Sindaco di Nazareth, città araba di 70.000 abitanti in Israele – nella Galilea – ristretta in confini invalicabili così che la Città non possa espandersi in proporzione al continuo aumento della popolazione, a fronte dell’enorme possibilità di crescita dell’ebraica Nazareth Illit, che pur avendo circa 40.000 abitanti può crescere fino a oltre 200.000 sui terreni espropriati ai proprietari arabi; dove un Sindaco ebreo proibisce alle migliaia di bambini palestinesi che pure lì vivono, di avere qualsiasi insegnamento nella e della lingua araba: “Questa è una città ebraica in uno Stato ebraico e quindi se vogliono l’arabo vadano a scuola da un’altra parte!”.

Già in questo primo incontro abbiamo potuto verificare quanta ingiustizia deve sopportare il popolo palestinese, per la perversa opera distruttiva del sistema amministrativo e legislativo tutto teso a favorire e privilegiare la componente ebraica della società all’interno dello Stato di Israele e per la perversa opera distruttiva del sistema di occupazione militare in Cisgiordania, che soffoca le esistenze e le aspirazioni basilari di sopravvivenza dignitosa nella loro terra, con l’ininterrotta colonizzazione, la distruzione delle case, l’abbattimento degli ulivi e la disgregazione della vita sociale ed economica delle comunità arabe, cristiane e musulmane. Può essere la via per garantire sicurezza e portare pace?

OLYMPUS DIGITAL CAMERAAbbiamo visto le conseguenze del muro di apartheid che è stato costruito per più di settecento chilometri, non sul confine della Linea Verde del 1967, ma in gran parte dentro i Territori Palestinesi per rubare terre, sorgenti d’acqua e risorse. Questo “muro di distruzione” – come lo chiama il Patriarca emerito Sabbah – è la negazione di ogni possibile conoscenza e fiducia reciproca tra israeliani e palestinesi. Per questo Giovanni Paolo II amplificava la condanna inequivocabile della Corte de L’Aja e dell’Assemblea generale dell’Onu con la sua magnifica, lapidaria e nel contempo amara considerazione: “Non di muri ha bisogno la Terra santa, ma di ponti!”. Parole ripetute e ribadite dal Capo di Gabinetto del Presidente dello Stato Palestinese che abbiamo incontrato alla Muqata (Palazzo del Presidente) di Ramallah, dal Sindaco di Gerico, città gemellata con Alessandria e dove respiriamo davvero “aria di casa”, dalla Sindaco di Betlemme in una gentile telefonata non potendo venire di persona a trovarci, dall’eroico Medico del Campo Profughi di Shou’fath a Gerusalemme, da Abuna (don) Raed, parroco latino, e Abuna Giulio, parroco melchita di Ramallah e da tanti altri…

Ma abbiamo respirato la tensione sottopelle di un popolo prostrato e provocato, abbiamo provato il brivido di “prove di intifada”, che se verrà temo sarà un massacro, alle porte di Gerusalemme, passando con il nostro pullman tra due ragazzini di 11/12 anni che tiravano sassi a una decina di soldati armati di tutto punto e con le armi puntate tra un lancio di lacrimogeni e bombe “rumore”… Come abbiamo vissuto personalmente un momento difficile sulla Spianata delle Moschee, dove ogni giorno si registrano incursioni di coloni, di parlamentari della destra israeliana, dell’esercito e della polizia, con tentativi di entrare nelle due moschee che vengono prontamente chiuse, con le grida delle donne che manifestano e che difendono il loro luogo sacro, che qualcuno minaccia di far saltare per ricostruire il Tempio e dove un soldato israeliano aveva, il giorno precedente la nostra visita, calpestato il Corano.

Ma nonostante tutto siamo tornati con una speranza non spenta. Siamo tornati portandoci come ricordo le parole di Mahmud Darwish, il poeta nazionale palestinese:

Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri,

non dimenticare il cibo delle colombe.

Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri,

non dimenticare coloro che chiedono la pace.

Mentre paghi la bolletta dell’acqua, pensa agli altri,

coloro che mungono le nuvole.

Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri,

non dimenticare i popoli delle tende.

Mentre dormi contando i pianeti, pensa agli altri,

coloro che non trovano un posto dove dormire.

Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,

coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.

Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,

e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio.

Una candela in mezzo al buio è ben poca cosa, ma così ci sentiamo sentiti.