L’abbaglio delle disuguaglianze

di BSoro Bruno 2runo Soro
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“Credo di essermi sbarazzato per sempre dei pensieri unilaterali, della logica binaria che ignora contraddizioni e complessità.”
E. Morin, “Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione”, Raffaello Cortina Editore, Milano 2015

 

“I progressi tecnologici di cui godiamo oggi, dai computer ai cellulari, dai viaggi spaziali ai nuovi farmaci, si basano per la maggior parte su centinaia di anni di indagine scientifica guidata da un’incrollabile fede nella possibilità di comprendere, descrivere, quantificare prevedere e alla fine controllare i fenomeni naturali. (…) Purtroppo questa utilissima rivoluzione si è fermata ai cancelli esterni delle scienze naturali, senza mai raggiungere un settore che ciò nonostante è sempre più soggetto a esami minuziosi: il comportamento degli individui e delle società umane.”
Albert-Lászlo Barabási, “Lampi. La trama nascosta che guida la nostra vita”, Einaudi, Torino 2011

 

Sui principali quotidiani campeggiano da qualche tempo notizie-come-lampi. Solo per fareDiseguaglianze un esempio, si prenda l’articolato servizio su più pagine apparso su Il Sole 24 Ore di domenica 26 aprile sulla disuguaglianza. Il servizio è sopra-titolato: “Il mondo è meno «disuguale». In Italia cresce il divario Nord-Sud”. A commento di quel servizio l’editoriale del sociologo Luca Ricolfi recita: “Credenze e realtà. La leggenda delle disuguaglianze crescenti”. A pagina 3, sopra-titolato “Cala la disuguaglianza tra paesi, crescono le differenze interne”, è riportato l’articolo di Riccardo Sorrentino a commento del fatto che la Terra è da qualche tempo “Un pianeta un po’ più «uguale»”. Ciò, grazie soprattutto al successo (e alle dimensioni) di due big dell’economia mondiale come la Cina e l’India la cui forte crescita, unitamente a quella delle economie cosiddette «emergenti», ha contribuito a ridurre le disparità di reddito, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso. E, infine, a pagina 5, Paolo Campana e lo stesso Luca Ricolfi rivolgono una nemmeno troppo larvata critica a “giornali e statistiche”, ponendosi il quesito: “Cresce o no (la disuguaglianza)? Se i media prendono un abbaglio”.

Una critica, quella di Campana e Ricolfi, estensibile a Premi Nobel come Joseph Stiglitz e l’ormai famoso economista francese Thomas Picketty, rei entrambi di avere sostenuto che, per effetto della globalizzazione (il primo), e a causa della finanziarizzazione del capitale (il secondo), la disuguaglianza, specie nei paesi sviluppati è in forte crescita. Ad avvalorare la tesi di questi due economisti, si vedano i servizi pubblicati su La Stampa (di giovedì 21 maggio) e su Repubblica (del giorno successivo) a commento di uno studio condotto dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo (OCSE). Secondo questo studio, per l’insieme dei paesi OCSE, in Italia e in particolare negli Stati Uniti, negli ultimi anni la disuguaglianza in termini di ricchezza sarebbe in forte crescita. La domanda che ci si può porre a questo punto è la seguente: l’aumento delle disuguaglianze è un abbaglio? Una leggenda?

Sul concetto di disuguaglianza e sulle possibili forme con le quali questo fenomeno si manifesta, sono apparsi negli ultimi anni numerosi contributi. Con due anni di anticipo rispetto ai risultati del Rapporto della Fondazione David Hume-Il Sole 24 Ore, l’economista francese François Bourguignon, ad esempio, aveva già ampiamente documentato che “Il più rapido sviluppo dei paesi emergenti e, in misura minore, di quelli in via di sviluppo contribuisce a ridurre la disuguaglianza tra i tenori di vita degli abitanti del pianeta, ma l’incremento delle disuguaglianze sui territori nazionali tende, al contrario, ad aumentarla” [F. Bourguignon, La globalizzazione della disuguaglianza, Codice Edizioni, Torino 2013), p. 20].

Tra l’altro, per verificare l’apparente contraddizione tra la diminuzione della disuguaglianza mondiale e quella internazionale (o tra paesi), non è neppure necessario il ricorso a indicatori statistici particolari (come l’indice di concentrazione di Gini), è sufficiente infatti un semplice sguardo ai dati resi disponibili dalla Banca Mondiale nel suo rapporto annuale World Development Indicator. Si scoprirà che nel 2001 la popolazione mondiale che viveva con meno di due dollari al giorno (la soglia sotto la quale si ha la povertà assoluta) ammontava a circa 2,5 miliardi (su una popolazione complessiva di 6 miliardi) e quella che viveva con meno di otto dollari al giorno era poco meno di 2,6 miliardi (e quindi complessivamente poco più di 5 miliardi viveva in condizioni di povertà). Nel 2013, la popolazione che vive con meno di due dollari al giorno è scesa a 817 milioni (su una popolazione complessiva di 7 miliardi) mentre quella che vive con un reddito fino ad un massimo di 33 dollari al giorno (la soglia oltre la quale i paesi rientrano nella categoria delle economie “ad alto reddito”) è salita a circa 3,5 miliardi. Ciò sta ad indicare che la disuguaglianza in termini di reddito, nell’arco di tempo considerato, si è senza ombra di dubbio ridotta. Tuttavia, il fatto che la popolazione che vive nelle economie a reddito più elevato (quella sopra i 33 dollari al giorno) rappresenti tuttora poco più del 14% (vale a dire circa un miliardo sui sette miliardi di popolazione nel 2013) lascia intendere che la disuguaglianza nella distribuzione del reddito, pur essendo diminuita, resta in ogni caso elevata.

Inoltre, dai primi anni ’90 del Novecento, da quando cioè sono disponibili dati comparabili per 150 paesi limitatamente al periodo 1960-1992, il problema delle «differenze internazionali tra i tassi di crescita» (ossia la causa dell’evoluzione dei divari tra i paesi evidenziato dal Rapporto della Fondazione David Hume-Il Sole 24 Ore), è oggetto di un acceso dibattito tra gli economisti. Da quel dibattito sono scaturiti almeno tre differenti filoni interpretativi, a seconda delle varie impostazioni teoriche, che hanno messo in luce l’esistenza di diversi club di convergenza che si vengono a creare (verso l’alto o verso il basso) in base ai meccanismi che determinano il successo (o l’insuccesso) dei paesi inseguitori (followers) nella rincorsa di quelli inseguiti (leaders), un fenomeno divenuto noto come catching-up.

Vale in ogni caso la pena di sottolineare come tutte queste interpretazioni, al pari di quelle messe in luce dal servizio apparso su Il Sole 24 Ore, attengano alla spiegazione della disuguaglianza (a livello mondiale o tra paesi) unicamente sulla base di una concezione della disuguaglianza stessa basata sul di flusso del reddito. La disuguaglianza messa in luce dallo studio dell’OCSE riguarda invece le disparità misurate in termini dello stock della ricchezza. Pur giungendo a conclusioni simili per quanto attiene all’aumento della disuguaglianza all’interno dei singoli paesi (più spiccatamente in quelli maggiormente sviluppati), entrambe queste interpretazioni fanno rifermento al fenomeno della disuguaglianza avendo riguardo unicamente al tenore di vita, ovvero misurata o in termini di reddito oppure di ricchezza posseduta dai cittadini.

Ora, quandanche si prescinda dai limiti (sovente sottaciuti) degli indicatori statistici e più ancora dalle difficoltà implicite nei vari metodi di indagine (quella condotta annualmente dalla Banca d’Italia, che si basa, ad esempio, sui bilanci delle famiglie degli italiani, ha messo in luce un forte aumento della povertà nel nostro paese), esistono altre forme di disuguaglianza, come le cosiddette disuguaglianze sociali. A partire dai lavori dell’economista e filosofo Amartya Sen, il quale ha messo in luce già dai primi anni ’90 del Novecento i “mille volti della povertà”, l’esistenza stessa di una «disuguaglianza» costituisce una manifestazione di una condizione di povertà. Essa può pertanto essere declinata in vari modi a seconda che si consideri la prospettiva della qualità della vita – che non è riconducibile esclusivamente alle condizioni economiche, e per misurare la quale è stato elaborato lo Human Development Index, un indice composito che tiene conto oltre al reddito pro capite, il grado di alfabetizzazione e la speranza di vita – oppure nella prospettiva della libertà di scelta, che attiene all’ampiezza del ventaglio delle opportunità tra le quali un individuo può scegliere, congiuntamente alla maggiore o minore libertà di scelta dell’opportunità che preferisce – per misurare la quale è stato elaborato l’Index of Economic Freedom, un altro indice composito che tiene conto di diversi indicatori, quali l’entità della pressione fiscale, delle tariffe, della regolazione, dei diritti di proprietà, dell’apertura dei mercati e così via.

In altri termini, per valutare se il mondo sia diventato più o meno uguale, occorrerebbe considerare, accanto al concetto di disuguaglianza nella prospettiva del tenore di vita, la presenza di una qualche forma di disuguaglianza sociale, come quelle di genere e/o di classe, unitamente a quelle dovute all’appartenenza ad una minoranza (di razza o di confessione religiosa), a quelle che conseguono alle guerre, alla fame e alle malattie, disuguaglianze dalle quali traggono origine i fenomeni migratori. Più in generale, alle disuguaglianze dovute alla presenza o all’assenza di sistemi di welfare.

Riconoscendo al primo Rapporto della Fondazione David Hume-Il Sole 24Ore il merito di aver sollevato il tema delle disuguaglianze, resta il fatto che questo argomento appare assai più complicato di quanto non emerga da quel Rapporto, ragion per cui non saprei dire se “Il mondo è meno «disuguale». Che lo sia oppure no, di certo il tema delle disuguaglianze non è né un abbaglio, né una leggenda.