Gigi nel grande cuore granata [Lettera 32]

di Beppe Giuliano

 

“Gigi è del 1935, ha quattro anni più di me, al Milan lui era in prima squadra e io nella giovanile. Agli allenamenti andavo in tram. Un giorno mi ha detto “salta su, mi pare che sei delle mie parti” e sono salito sulla sua 600. Da allora ogni giorno mi lasciava a Cusano Milanino e proseguiva per Cesano Maderno. Venivamo da due famiglie uguali, il padre operaio, il mio alla Gerli, il suo alla Snia.”

Il racconto è di Giovanni Trapattoni, quando lui allenava la Juventus e Gigi Radice invece il Torino, quando per qualche anno il campionato era roba loro, quando il calcio era tutt’altra cosa, e lo erano i suoi uomini.

Gigi Radice se ne è andato un venerdì, ma la sua mente lo aveva e ci aveva lasciato già da diversi anni.

Da calciatore aveva dovuto smettere presto, il ginocchio non guariva più. Da allenatore si era fatto notare al Monza, aveva fatto bene alla Fiorentina, ma la sua carriera rimane per sempre legata a doppio filo al Toro, e a quello scudetto che sembra ormai irripetibile.

Il tedesco, l’uomo dagli occhi di ghiaccio, aveva fama di essere un duro. Un duro che poteva essere morto già quarant’anni fa, il tragico incidente d’auto in Liguria in cui se ne andò Paolo Barison, il suo amico, anche lui calciatore nel Milan, anche lui fermato presto in carriera da un infortunio che non passava più.

Un incidente che segna una specie di confine nella carriera di Gigi, ancora per poco sulla panchina del Toro insieme all’inseparabile Mirko Ferretti (un altro grande amico, uno con cui “l’intesa è una semplice strizzata d’occhi”), poi: “…mi cacciano via e mi fanno sentire un allenatore qualunque, cinque anni di affettuosa collaborazione spazzati via perché si erano perdute un paio di partite in più” dirà in un’intervista del 1980, l’amarezza della separazione ancora evidente, ma i grandi amori non finiscono mai.

Dopo infatti tante squadre con risultati discreti ma niente come il granata, l’amaro esonero nell’anno della retrocessione del Milan sgangherato di inizio anni ’80, una stagione epica e sfortunata con una Inter altrettanto sgangherata, e un congedo frettoloso nel 1984 da parte del Pellegrini appena subentrato al presidente Fraizzoli che ricorda il benservito infelice dato una decina di anni dopo dall’Ernesto a un altro leggendario come Osvaldo Bagnoli, un altro della stessa razza dei Radice (e dei Trapattoni).

Sí, Bagnoli, proprio l’allenatore che l’anno dopo batté Gigi tornato sulla panchina granata per sfiorare di nuovo l’impresa dello scudetto nell’incredibile stagione ’84-‘85, il Torino secondo solo al Verona appunto allenato dall’Osvaldo della Bovisa.

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“Siamo stati i primi a fare pressing. Molto movimento senza palla, il dai e vai in velocità. Quel Toro era una squadra moderna, che s’ispirava con metodo e chiarezza alla scuola olandese. Il modello era l’Ajax, il calcio totale, nuova luce e visione in Europa.”

Era una squadra piena di talento il Torino, e nell’estate del 1975 al “poeta” Claudio Sala, a Zaccarelli, ovviamente ai gemelli del gol Graziani e Paolino Pulici, a “faina” Salvadori che prima vestiva la maglia grigia, si era aggiunto “piedone” Eraldo Pecci, centrocampista ricco di fosforo come si diceva allora. Eppure alla fine del girone d’andata, dopo un pareggio a Cesena, proprio la squadra che due anni prima Radice aveva per la prima volta portato in A, la Juventus conservava tre punti di vantaggio (allora, lo ricordo, la vittoria ne assegnava solo due). E poi a peggiorare la situazione due sconfitte nelle prime trasferte del girone di ritorno, 2-1 a Perugia e 1-0 contro l’Inter. I punti di distacco erano diventati cinque. Fu proprio il Cesena a riaprire quel campionato, con i due gol di Bertarelli ai bianconeri, il primo giorno di primavera (non è una coincidenza, forse), poi sette giorni dopo il derby vinto sul campo e rivinto a tavolino per il petardo lanciato contro il “giaguaro” Castellini (che poco dopo dovette lasciare i granata, e secondo i si dice l’addio aveva a che vedere con un altro aspetto della personalità del suo allenatore, molto sensibile al fascino femminile).

Già la domenica dopo un gol dell’interista Mario Bertini alla Juventus aveva consegnato al Torino (2-1 al Milan con un raro gol di Garritano subentrato a Paolino Pulici) la testa della classifica.

Fu scudetto il 16 maggio 1976. Una data che ogni tifoso del Torino ricorda perfettamente. E che associa al nome di Gigi Radice.

L’anno dopo fu quello del record, 51 punti per vincere mai fatti prima né dopo in un torneo a 16 squadre con la vittoria premiata dai due punti. Peraltro nessuno ha mai fatto neanche i 50 punti che valsero al Torino un eccezionale, e terribilmente amaro, secondo posto. Imbattuti per tutto il girone d’andata, un derby vinto e uno pareggiato, una squadra che giocava un football eccezionale fino al 5-1 della 30a giornata, e Graziani che quell’anno fu capocannoniere con 21 gol segnó all’inizio della ripresa il quarto gol ma l’urlo della curva Maratona si spense subito perché a Marassi aveva segnato Bettega, proprio il più bianconero tra tutti i giocatori “gobbi”.

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Il padrone di quella squadra, non il Torino l’altra della città subalpina, l’Avvocato che non è mai andato neanche un giorno in un tribunale (come diceva Beppe Viola) tra le tante sue frasi famose evidenziava che “le azioni non si contano ma si pesano”. Se vale anche per i trofei sportivi, allora il peso di quel solo scudetto vinto dall’allenatore Gigi Radice è enorme.

Se ne è andato dunque un grande, un grandissimo. Allenatore grandissimo, uomo grandissimo.

Se ne è andato in un anno strano, quando già erano morti gli altri due allenatori che hanno fatto la storia dei granata dagli anni settanta, Gustavo Giagnoni col suo colbacco, proprio colui che Radice aveva sostituito. E il Mondo che aveva sfiorato l’impresa delle imprese, il giorno della sedia sollevata al cielo all’ennesimo palo colpito nella finale con l’Ajax, la squadra che costituì il modello di gioco a cui Radice si ispirò, primo in Italia a portare la modernità del gioco degli orange.

D’altronde anche questo è il Torino, una squadra unica anche nella malasorte, nelle tragedie. Lo stesso Mirko Ferretti diventò il secondo di Radice per la terribile fine di un’altra bandiera come capitan Ferrini.

Una squadra unica nel cuore, dei suoi tifosi e di tantissimi altri.

E in tutti quei cuori un grande spazio lo occupa, ora ancora di più e per sempre Gigi Radice.