La serie nera (2) [Lettera 32]

di Beppe Giuliano

 

 

Una sacca bianca e due occhi indimenticabili

 

“Cevert aveva l’Alpine-Renault, però si vergognava ad andare in giro con quella macchina, preferiva la Miura. Così una volta, a Monza, finite le prove della Formula 3 mi dice: “Devo andare all’aeroporto a prendere una mia amica”. “Prendi la macchina”, gli faccio io. Era il ’68, avevo la Miura. “No, no, vieni anche tu”. “Ma è bella, almeno?” domando io. Arriviamo all’aeroporto, l’aereo ha un’ora di ritardo. “Val la pena stare qui ad aspettare?”. “Sì”.
Quando si aprono le porte vedo scendere la Brigitte Bardot. Indossava una minigonna e un paio di stivaletti bianchi, aveva una sacca bianca e due occhi indimenticabili. Lei andava matta per lui, ricordo che aveva gli occhi lucidi, quando lo vide. Lui, che aveva di quelle gentilezze che adesso non ci sono più, le prende la sacca e andiamo alla macchina. “François, sei diventato miliardario in Italia?”, chiede lei quando vede la Miura. Io sto zitto. Lui ci teneva a farle vedere che se la passava bene: andando avanti ho capito che lei voleva dargli dei soldi ma lui non accettava.”

Il racconto è di Franco Galli, pilota degli anni Sessanta. Dal bellissimo ‘Benzina e cammina’ di Luca Delli Carri.

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La stagione dei Gran Premi, quasi tutta europea, si concludeva con le due corse americane, in Canada e negli Stati Uniti e il campionato 1973 era già deciso a favore dello scozzese Jackie Stewart. L’ultima gara prima di andare oltre-Oceano, a Monza, l’aveva vinta Ronnie Peterson, Colin Chapman aveva lanciato in aria il cappellino come sempre quando una delle sue Lotus tagliava vittoriosa il traguardo. Scaricato Fittipaldi, aveva deciso che il giovane svedese sarebbe diventato il suo numero uno nel 1974.

Nella prima delle gare nord-americane a Mosport, nel caos più totale tra temporali che si succedevano, con l’ingresso in pista per la prima volta nella storia di una “safety car”, i giudici sbagliarono inizialmente ad assegnare la vittoria all’inglese Ganley (che tuttora è convinto di averla vinta, quella corsa), Chapman lanciò il cappellino pensando a una vittoria di Fittipaldi, mentre il primo fu Peter Revson, per la seconda e ultima volta sul podio più alto.

Due settimane dopo, il 7 ottobre, la stagione sarebbe terminata a Watkins Glen.

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In prima pagina sulla Stampa del 6 ottobre ci sono fotografie di Ugo La Malfa e di Henry Kissinger. Invece il giorno dopo, domenica 7 ottobre, un unico titolo a nove colonne in maiuscolo: “MEDIO ORIENTE: GUERRA”. “Gli egiziani hanno passato il canale”, mentre nel sommario si legge: “Alle 13 di ieri un comunicato israeliano annuncia l’attacco contemporaneo di Egitto e Siria sui due fronti – Ingenti truppe del Cairo con mezzi corazzati sbarcano nel Sinai aprendo furiosi combattimenti – Israele contrattacca con aerei e carri armati, un portavoce afferma che l’offensiva viene contenuta – Sul Golan, un’avanzata siriana appoggiata dall’aviazione è bloccata – Grosse perdite di uomini e apparecchi da entrambe le parti – A Tel Aviv e Gerusalemme allarmi aerei, oscuramento, mobilitazione delle riserve – Calma sulla linea di tregua con la Giordania”.

La guerra del Kippur, iniziata dagli stati arabi con un attacco a sorpresa mentre in Israele ricorre il “giorno dell’espiazione”, il paese è bloccato, anche molte comunicazioni sono interrotte, pur non concludendosi con il netto successo di una delle parti portò tra le conseguenze anche la prima crisi petrolifera, quando i paesi arabi riuniti nell’Opec decisero di sospendere le forniture verso i paesi occidentali filo-israeliani. Conoscemmo le domeniche a piedi, l’inflazione, vennero bandite le insegne luminose di grandi dimensioni, i cinema chiudevano alle 22. Coniammo una nuova parola: austerity.

Quella stessa domenica inizia il campionato, con la novità di un giocatore in più in panchina: arriva il numero “14” ma è ancora ammessa una sola sostituzione oltre il portiere. La panchina più “lussuosa” è della Juve: il giovane promettente Gentile col 14, il vecchio Altafini che quell’anno entrando a gara in corsa vincerà molti incontri per i bianconeri, col 13. A Milano si gioca Inter-Genoa e nelle file dei rossoblu c’è Mariolino Corso appena ceduto da H.H. con il benestare del Presidente Fraizzoli. Herrera detestava da sempre Corso, che come noto gli rispondeva spesso: “tasi mona”. Il mago era tornato quell’anno a guidare i nerazzurri, un’esperienza di scarso successo presto interrotta da un infarto.

A pag. 22, nello sport: “Cevert muore a Watkins Glen uscendo di pista con la Tyrrell”.

L’articolo di spalla parla di “Un sogno svanito”.

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François, figlio di un gioielliere di religione ebraica fuggito dalla Russia per sfuggire ai pogrom, nasce durante l’invasione nazista di Parigi e per proteggerlo gli danno il cognome della madre anziché il paterno Goldenberg.

Una sorella bella come lui sposata al pilota Jean-Pierre Beltoise (quello che causò l’incidente mortale di Giunti), Cevert fece parecchia gavetta nelle serie minori, che negli anni sessanta erano all’apice, e arrivò in Formula 1 anche con una certa fortuna quando si ritirò improvvisamente Johnny Servoz-Gavin, il dandy. Che capì di avere troppa paura, scese dalla Tyrrell dopo le prove di Monaco del 1970 per non salirci mai più (in effetti i tre francesi che guidarono per il “boscaiolo” dopo di lui si sono tutti uccisi o terribilmente feriti al volante).

Fuor di metafora, come si dice, l’unico modo per descrivere l’aspetto di Cevert: un figo della madonna. Lo tratteggia in una sola frase Giorgio Terruzzi: “Cammina per i box a Monza e sembra un principe arabo, gli occhiali da sole sopra quello sguardo naturalmente formidabile.”

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È anche un buon pilota, molto cresciuto al fianco di Jackie Stewart, prima guida della scuderia inglese con sponsor il petrolio francese di Elf: “Cevert diventa rapidamente una specie di figlio per Stewart. Al fianco del grande scozzese – scrive Terruzzi – cresce, migliora. E vince. Gran Premio degli Stati Uniti 1971. Watkins Glen, la sua pista. Per la Francia è un eroe fresco e perfetto. Non solo velocità. François suona il piano, pilota personalmente il proprio aereo, con largo anticipo su una moda che diverrà ricorrente, conquista traguardi e cuori, compreso – si dice, si dirà – quello di Brigitte Bardot.”

B.B. ha dieci anni più di François. In quel momento è il sogno erotico di ogni uomo tra i 6 e i 99 anni. La sua carriera d’attrice, iniziata sulla spiaggia di un borgo di pescatori diventato grazie a lei meta del turismo d’elite, e costellata di film non memorabili, sta volgendo al termine.

Nei giorni in cui B.B. raggiunge Cevert a Monza, Jane Birkin oltre a un uomo (uno dei tanti) le ha da poco sfilato il successo musicale. Insieme a Gainsbourg hanno reinciso la scandalosa ‘Je t’aime… moi non plus’, che infatti nessuno ricorda nella versione originale cantata appunto con B.B. Insieme al sulfureo Serge il maggior successo canoro di Brigitte è dunque ‘Bonnie and Clyde’ e lei nel video con basco e mitra è tuttora da culto.

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Chi correva con lui negli anni d’oro della Formula 3 (che racconteremo prossimamente), dice che Cevert era diventato “cattivo” al volante, s’era messo in testa di battere Stewart, impresa impossibile. La causa del suo incidente mortale pare infatti il tentativo di entrare nella veloce esse stretta tra le barriere di protezione senza scalare dalla quarta alla terza proprio per migliorare il tempo del compagno di squadra, giunto all’ultimo Grand Prix della carriera, che non disputerà mai, fermandosi così a novantanove partenze e ventisei vittorie, record che lo scozzese conserverà a lungo, di assoluto prestigio, stabilito quando si correva meno e i piloti che potevano vincere una gara erano molti più di oggi.

Ci sono alcune immagini, scattate da Richard Kelley, allora diciannovenne, poi uno dei più grandi fotografi delle corse. Diventate molto famose. Quel giorno era infatti al box della Tyrrell e si concentrò proprio sul francese, riprendendolo sino all’istante in cui infilò il casco mise in moto la vettura uscì dal box, diretto alla curva in cui finì a cavallo del guard rail che scempiò il suo corpo.

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Nel prossimo episodio di ‘La serie nera’:

Gli anni favolosi della Formula 3