Monica. E lo sconosciuto [Il Citazionista]

maria_piadi Andrea Antonuccio.

«Uno sconosciuto è il mio amico, uno che io non conosco/ Uno sconosciuto lontano lontano/ Per lui il mio cuore è pieno di nostalgia/ Perché egli non è presso di me/ Perché forse non esiste affatto?/ Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza?/ Che colmi tutta la terra della tua assenza?»
“Uno sconosciuto è il mio amico”, Pär Lagerkvist, premio Nobel per la letteratura, 1951

E’ domenica, e per caso leggo sul Corriere della Sera del suicidio, avvenuto giovedì 25 febbraio, di Monica Samassa.

Un’attrice brava e “non famosa”, se non per quelli che andavano a vederla a teatro. Pochi, in fondo, rispetto alle oceaniche platee televisive proiettate sul nulla (e sulle nullità).

Nel 2011 scrissi su CorriereAL versione 1.0 (il vecchio blog, per chi se lo ricorda) una recensione dello spettacolo teatrale Il diario di Mariapia, una commedia neoplastica, di e con Fausto Paravidino. Ve la ripropongo nuovamente, questa recensione. Letta adesso mi sembra scritta da un altro, ben più bravo e competente di me.

E’ proprio vero che quello che si scrive da “commossi” è più della somma delle proprie capacità. E io, quella sera a teatro, fui letteralmente investito dalla bravura, sommessa e dolente, di Monica Samassa. Una donna che non avrebbe dovuto chiudere i conti con “lo sconosciuto” così presto. Men che meno in questo modo.

Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza?/
Che colmi tutta la terra della tua assenza?

***
CorriereAL, 2o dicembre 2011

Commovente e irritante, perfetto e imperfetto, brutto e bello. Con un solo aggettivo, forse quello più amato da Maria Pia, potremmo dire “distruente”. E’ lo spettacolo “Il diario di Mariapia, una commedia neoplastica“, visto al Sociale di Valenza, di e con Fausto Paravidino, affiancato da Iris Fusetti e Monica Samassa.

E’ un teatro anti-teatrale che punta a sfasciare la quarta parete, quell’immaginario e realistico diaframma tra pubblico e attori, ma solo per ricostruirla subito, in un aritmia che sconvolge e disturba, rende la poltroncina scomoda, urta l’inevitabile (crono)logica che la mente prova a individuare per non perdere il filo del discorso.

Il discorso dell’autore è una lama, per il linguaggio scarno e crudele, per l’anima nuda degli attori (resa anche fisicamente dal loro spogliarsi in scena), per quel maledetto trono evidentemente shakespeariano su cui la protagonista soffre la pena della propria malattia del vivere, più che del morire.

L’assurdo (alla Ionesco, per intenderci) di questa commedia neoplastica, come la chiama Paravidino per fotterci senza pietà, è che porta il pubblico all’imbarazzo di esserci, di esistere, di non poter accampare una scusa per andarsene. La morte, vivisezionata nel suo pallido riflesso vitale, è immediatamente fastidio, imbarazzo, odore di ospedale e di parenti idioti che ripetono la stessa storia per non guardare in faccia la realtà.

C’è tanto Shakespeare, dicevo, già a partire dalla scenografia. C’è il dramma del vivere (che non avremmo, se non fossimo destinati a morire), c’è la tragedia che si dipana, prima ancora che nella lotta contro il nemico oscuro, nel raccontare e raccontarsi di Fausto/Mariapia (la stessa persona, in fondo); c’è l’Edipo Re di Sofocle, così come una certa concessione allo sperimentalismo un po’ invecchiato del teatro italiano “all’avanguardia”, che rende l’opera imperfetta (non è sicuro che sia un difetto).

Vivere è possibile, ma morire è necessario. Paravidino ce la sbatte in faccia, questa misteriosa ovvietà da cui tutti fuggiamo, e trova una strada narrativa piena di tranelli, ostacoli e genialità. Non saprei dire quanto sia borghese o antiborghese (in senso teatrale, ovviamente) il suo dire e non-dire, la sua struttura così rigidamente aperta, la sfrontatezza e l’apparente non-coinvolgimento emotivo; ma, piaccia o non piaccia, l’opera lascia un solco profondo, ad uso di chi oserà, la prossima volta, avventurarsi nello stesso percorso. Ancora una cosa: Monica Samassa è eccezionale.

Da vedere.

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