Le ultime tappe della “corsa del bugnone” furono massacranti. Circa 300 miglia, 480 chilometri in cinque giorni prima del finale indoor al Madison Square Garden con altre 26 miglia, per non farsi mancare niente.
A contendersi la vittoria erano rimasti il cherokee Andy Payne e Johnny Salo, nato in Finlandia ma residente nel New Jersey dove faceva il poliziotto. Farà una brutta fine pochi anni dopo, ucciso in servizio durante una partita di baseball quando una pallina lo colpì alla testa.
Il baseball era allora il “passatempo americano” e, in una nazione senza storia e leggende, era già diventato la principale ispirazione di molte di queste.
E il dopoguerra, con un certo benessere e una grande voglia di godersela in ogni modo, le aveva viste fiorire come non mai.
Era iniziata con l’enorme scandalo dei “Black Sox” del 1919 quando uno scommettitore aveva comprato l’esito delle partite di finale, qualcosa di ben più enorme del nostro calcioscommesse, era proseguita con la prima morte durante una partita, oltretutto di uno dei giocatori più popolari e più amati, il capitano dei Cleveland colpito alla testa dalla pallina scagliata da un lanciatore che aveva la nomea di essere particolarmente bastardo, ed era culminata nella popolarità del tutto clamorosa del più grande campione del gioco, il “bambino” Babe Ruth.
Tutte storie che meriterebbero di essere raccontate in modo più accurato, quando non l’hanno già fatto il cinema e la letteratura.
Lo scandalo dei “Black Sox” infatti è alla base del libro e del film ‘Otto uomini fuori’ mentre un altro dei film più amati negli anni ottanta, ‘L’uomo dei sogni’ con Kevin Costner, il film veltroniano per eccellenza, ruota proprio attorno alle figure dei giocatori che si vendettero quelle finali, soprattutto Shoeless Joe Jackson, il campione analfabeta che diventò una figura patetica del decennio con i suoi continui tentativi di farsi cancellare l’implacabile squalifica a vita comminata agli otto colpevoli.
(Dello scandalo e di Shoeless Joe Jackson abbiamo in effetti già scritto: https://mag.corriereal.info/wordpress/2016/01/25/di-che-non-e-cosi-joe-lettera-32/)
*****
Lo scandalo, poi, circola in uno dei più grandi romanzi del ventesimo secolo:
«Che fa nella vita… è un attore?»
«No.»
«Un dentista?»
«Meyer Wolfshiem? No, è un giocatore d’azzardo.» Esitò, poi aggiunse freddamente: «È lui l’uomo che truccò la World Series nel 1919.»
«Truccò la World’s Series?» ripetei.
L’idea mi scosse. Ricordavo, ovviamente, che la World’s Series era stata truccata nel 1919, ma ho sempre pensato a quella vicenda come a qualcosa di semplicemente accaduto, l’esito di un’inevitabile sequenza di eventi. Non avevo mai preso in considerazione l’idea che un uomo potesse prendersi gioco della buona fede di cinquanta milioni di persone… con la stessa determinazione di un ladro che fa saltare una cassaforte.
«Come ha fatto?» chiesi dopo un po’.
«Aveva intuito la possibilità.»
«E come mai non è in carcere?»
«Non sono riusciti a condannarlo, vecchio mio. È un uomo molto furbo.»
(Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald. Nella traduzione della Fernanda Pivano)
In quel 1928, mentre la corsa procedeva verso il traguardo, i Fitzgerald erano tornati a Parigi, allora la calamita che attraeva intellettuali, artisti, nobildonne, avventurieri.
Francis, colui che come nessun altro aveva raccontato l’età del jazz, e sua moglie Zelda litigavano sempre di più, i dissidi tra loro erano sempre più insanabili, lei scivolava sempre più inesorabilmente verso la follia e lui sempre più si rifugiava nella bottiglia.
Belli e dannati.
Avevano mancato di poco Ernest Hemingway. Loro erano arrivati nella capitale francese ad aprile, lui l’aveva lasciata a marzo spostandosi a Key West, per esaudire il desiderio della moglie Pauline Pfeiffer. Aveva pubblicato un paio di anni prima ‘Fiesta’ (o ‘Il sole sorgerà ancora’ come uscirà in diverse edizioni, pure nella variante “sorge”), stava lavorando ad ‘Addio alle armi’ e aveva appena scritto assoluti capolavori come i racconti ‘Cinquanta bigliettoni’ (sulla boxe), ‘Gli uccisori’ e ‘Che ti dice la Patria?’ (il titolo originale è in italiano perché qui è ambientato).
Pauline, sua seconda moglie, era incinta quando lasciarono Parigi e a giugno nascerà Patrick, unico figlio dello scrittore tuttora vivente, per molti anni cacciatore ai piedi del Kilimangiaro (insomma degno erede, oltre che delle opere anche delle avventurose passioni del padre).
Pochi mesi dopo, nel dicembre del 1928 si ucciderà invece suo padre Clarence, e lui dirà una frase tragicamente premonitrice: I’ll probably go the same way.
*****
Mentre i nostri corridori rimasti in gara il giorno 26 di maggio girano e girano nel Madison Square Garden per finalmente completare la loro fatica, vediamo brevemente alcuni fatti di quel periodo del 1928:
– è appena uscito il primo cortometraggio di Walt Disney, L’aereo impazzito e quindi hanno esordito (o, se vogliamo, sono nati) Topolino e Minnie;
– anche l’organizzatore del “bunion derby” ha un (bizzarro) legame con Disney, perché pochi anni dopo la corsa sposerà Elvia, un’attrice famosa per essere la voce di Clarabella;
– il giorno 24 il dirigibile Italia si è schiantato nel tentativo di sorvolo del Polo Nord. Alcuni dei membri dell’equipaggio sono sopravvissuti, rifugiati in una “tenda rossa”. Tra loro il comandante Nobile con una gamba rotta e la cagnetta Titina. Quando un aereo di soccorso porterà in salvo entrambi, prima di altri superstiti, le polemiche saranno ferocissime;
– alle operazioni di salvataggio si è generosamente unito Roald Amundsen. Non tornerà più;
– in Alessandria si discute della nuova sede del campo da calcio: “Un terreno comunale adattissimo per la costruzione di un campo sportivo è situato, e libero da ogni impegno contrattuale, in spalto Rovereto tra la via Guasco, via Bellini e viale di Circonvallazione” si legge sul Piccolo. Sta per nascere il nostro Moccagatta.
*****
La corsa la vince Andy Payne, che col premio pagherà il mutuo della fattoria dei genitori, così salvandoli dal disastro che colpirà l’Oklahoma pochi anni dopo.
I premi saranno pagati grazie a un mecenate, un miliardario californiano. Le casse dell’organizzatore erano vuote.
Le C.C. di Pyle, dissero i cattivi, non significavano più “denaro” infatti ma semmai “Corn and Callus”, “calli e ancora calli”. Si trovò in grandi guai finanziari, disse addirittura che “si è parlato tanto delle sofferenze di questi ragazzi ma nessuno ha sofferto tanto come me” e, come tutti quelli del suo genere per uscire dai problemi rilanciò, preparando l’organizzazione della corsa “di ritorno” prevista per il 1929.
Intanto il “nostro” Peter Gavuzzi per tornare in Europa aveva ripreso a lavorare sul Majestic. Pochi mesi dopo sarebbe stato di nuovo al di là dell’Atlantico pronto, così come Johnny Salo e il triestino Giusto Umek, al via della New York-Los Angeles a fine marzo del ‘29.