Oklahoma la terra dei Cherokee, il sangue di Jack Dempsey e il giro dei 32 [Lettera 32]

di Beppe Giuliano

 

Racconti dell’età del jazz (quarta parte)

 

Andrew Payne, col numero 43 sulla maglietta, attraversò come nessun altro il Texas Panhandle (Panhandle perché è il “manico” della padella cui lo stato della stella solitaria assomiglia nella forma), la regione “così piatta che vedi due giorni più in là” che divide il Nuovo Messico dall’Oklahoma.

Già nel Nuovo Messico in gara alla “corsa del bugnone” dei quasi duecento partenti erano rimasti solo 93, scottati dal sole.

L’attacco di Payne lo fece immediatamente diventare un eroe nel suo stato natale, il governatore Henry S. Johnston lo accolse con una grande celebrazione alla fiera allestita per il passaggio da Oklahoma City, lui si fermò, prese il microfono, disse: “Hello, compaesani. Sono felice di essere dalle parti di casa. Spero di vedervi a New York.”

E riprese a correre.

Finalmente in Oklahoma le folle attese da C.C.Pyle erano arrivate, grazie al campione locale: i motociclisti dovevano aprire la strada ai corridori facendo spostare le folle, le scuole chiusero per permettere ai bambini di vedere il passaggio di Andy, un gruppo di indiani Cheek lo incitava mentre passava in posti sperduti come Sapulpa così come la notte in cui campeggiarono all’ombra della Lee School di Tulsa, arrivò lo stesso Cy Avery – il “fondatore” della Route 66 –  a dichiarare ai reporter la sua certezza che il ragazzo di Claremore “avesse l’energia necessaria per vincere”.

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L’Oklahoma è uno degli ultimi Stati a unirsi agli USA, il quarantaseiesimo nel 1907, solo l’Arizona e il New Mexico tra quelli continentali arrivarono dopo, nel 1912.

Tutti tra l’altro attraversati dalla Route 66, come detto la maggior parte del percorso (inverso) fatto dai nostri corridori del 1928, perché la strada parte in Illinois per arrivare in California sul “pier”, il molo di Santa Monica, attraversando Missouri, Kansas, Oklahoma appunto, Texas, New Mexico e Arizona.

Il nome Oklahoma significa “persona rossa”, evidente riferimento “indiano”, e viene dalla lingua dei Choctaw, che come i Cherokee appartengono alle cosiddette “cinque tribù civilizzate”, termine che i nativi americani considerano sprezzante. Hanno lingue diverse, irochese i Cherokee mentre i Choctaw muskogean.

Nel 1905 le cinque tribù si erano riunite in una città chiamata proprio Muskogee per discutere l’istituzione di uno stato indiano con capitale lì, ma come sempre succede ai perdenti della storia la loro proposta non piacque a Theodore Roosevelt, e infatti due anni dopo lo stato si unì alla confederazione ma scelse come capitale Oklahoma City.

E dell’Oklahoma era appunto Arthur Payne, tra i protagonisti della nostra “corsa del bugnone”, un indiano Cherokee ma se leggete le cronache della Stampa dell’epoca viene usato il termine “pellerossa” che oggi decisamente su un giornale non possiamo scrivere più.

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Quando Gianni Clerici, il maestro del giornalismo sul tennis (e grande scrittore) parla di Bill Tilden, altro personaggio notevole su cui torneremo, dice che insieme a lui “gli altri eroi sportivi del suo tempo”, appunto i nostri anni venti, erano “un Jones, un Babe Ruth, un Dempsey”. Atleti che diventeranno (tranne il golfista Jones) celebrità in tutto il mondo, all’epoca venerati come i divi del cinema.

Jack Dempsey contribuì in maniera decisiva ad accrescere ulteriormente il successo del pugilato, la “nobile arte”. Per dire: tra l’incontro del 1919 in cui tolse il titolo al gigante Willard, che a sua volta l’aveva tolto a Jack Johnson il texano figlio di schiavi primo campione di colore, mandato ko alla ventiseiesima (sic!) nel famoso combattimento dell’Avana e quello del ‘26 in cui perse contro Gene Tunney gli spettatori erano passati da 20mila a 135mila, con un incasso quando combatterono la rivincita nel ‘27 oltre i 2 milioni e mezzo di dollari (dell’epoca!).

Dempsey diventò famoso anche perché durante il regno da campione mondiale dei massimi durato per gran parte degli anni venti, frequentò Hollywood sposandone una diva, Estelle Taylor, una delle più belle dell’era del muto.

Divenne proprietario di ristoranti, e proprio davanti al suo locale nel Brill Building di Broadway, famoso per la cheesecake che De Gaulle si faceva spedire a Parigi, inizia la scena dell’incontro tra Michael Corleone, il nemicorew e il corrotto capitano McCluskey nel ‘Padrino’.

Nato nel Colorado a Manassa, soprannominato appunto “Manassas Mauler” (massacratore) per lo stile di boxe che gli portò quasi cinquanta vittorie per ko, anche se era figlio di irlandesi gli si attribuiscono radici Cherokee.

Una diatriba mai risolta, e che peraltro appassiona molto gli americani, dove le polemiche sulle “radici” sono tuttora non sopite come dimostra la vicenda della candidata presidente Elizabeth Warren, criticata dalla nazione Cherokee per il test del dna fatto per dimostrare di avere ascendenti nativi.

Su Dempsey non abbiamo prove del suo essere in parte indiano, anche se un parere autorevole viene dal necrologio del New York Times, che come noto ha fatto dei “coccodrilli” – genere letterario che chi scrive qui adora, tra l’altro – un’arte, oltre che un ambito status-symbol: “Da giovane Dempsey era un hobo, che si spostava saltando sui treni merci e si guadagnava da vivere combattendo nei saloon del Wild West. Per la fine degli anni venti, con il suo passato seppellito nel mistero insieme alle sue radici indiane Cherokee, era un miliardario.”

A rafforzare il collegamento con i nativi veniva citato il suo aspetto, i capelli nerissimi e gli zigomi alti, una osservazione che oggi rischierebbe di essere giudicata razzista.

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Alcune difese del titolo vincenti furono all’epoca sulle prime pagine dei giornali a lungo, soprattutto quella contro l’eroe francese della prima guerra mondiale, l’aviatore decorato Georges Carpentier e quella contro “El Toro de las Pampas” Firpo che prima di essere sconfitto riuscì a buttare fuori dalle corde Dempsey, che si ferì alla testa atterrando sulla macchina da scrivere di uno dei reporter, una scena dipinta da George Bellows.

Comunque il racconto più emozionante resta quello della sconfitta contro l’ex-Marine Gene Tunney e si deve alla penna di Roger Kahn, lo scrittore e autore di ‘A flame of pure fire. Jack Dempsey and the Roaring 20s’ che ha pure raccontato una delle più grandi epopee del baseball in ‘The Boys Of Summer’:

“La celebre teoria di Ruskin sui “libri senza valore” nota che gli autori scadenti creano sempre un clima adatto alla scena. Le buone cose avvengono col solleone. I funerali si tengono sotto la pioggia. Ruskin è inattaccabile per la teoria letteraria, ma quando la pioggerella si trasformò in acquazzone, Dempsey effettivamente subì una punizione terribile. Tunney vinse tutte e dieci le riprese.

Quando tornò a centro ring per la decima, Dempsey sanguinava dalla bocca e le due guance erano ferite. La pioggia continuava. E la sua faccia era striata di pioggia e lordata dal sangue. Pure continuava ad avanzare. Gli doleva lo stomaco e le gambe vacillavano e il suo capo pareva quello trafitto di spine di un martire. Era indimenticabile, questo coraggio selvatico e spettrale sotto la pioggia.

Al suono della campana, Dempsey combatté il dolore e gettò un braccio su una spalla di Tunney. «Gran combattimento, Gene,» gli disse. «L’hai vinto.» E tornò all’angolo.

(…) Estelle, la sua seconda moglie, aveva evitato l’incontro… sedeva nel salotto della camera d’albergo quando Dempsey tornò. L’aspetto del suo viso la impressionò, ma ebbe la forza di non dimostrarlo e lo toccò dolcemente, cercando un punto non ferito.

Lo baciò delicatamente e gli chiese: «Cos’è successo, Ginsberg?»

La risposta di lui fu breve, buffa e memorabile: «Tesoro, ho scordato di schivare.»”

“Honey, I forgot to duck.” Darà la stessa risposta Ronald Reagan alla moglie dopo l’attentato in cui il Presidente degli Stati Uniti fu ferito.

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La “corsa del bugnone” aveva svoltato e saliva verso Chicago, con tutta l’attenzione al duello tra l’indiano Payne e l’inglese di Alba Gavuzzi.

Invece tutta l’attenzione alessandrina era rivolta al V circuito automobilistico di Alessandria. “Per rinnovare l’impari lotta contro il tempo e lo spazio” si scriveva sul giornale, con l’eccesso di retorica allora molto in voga. I migliori piloti avrebbero viaggiato a velocità incredibili sul “giro dei 32”: otto passaggi totali per 256 chilometri. Dalla Cittadella verso Valmadonna, Valenza, San Salvatore, Castelletto Scassoso come era chiamato allora (e fino al ‘37), per tornare da San Michele. I più veloci lo facevano in circa 18 minuti. Sovente la pioggia rendeva il tracciato fangoso, e particolarmente scivoloso. Alessandria era uno dei gran premi più difficili.

Era iscritto Achille Varzi che con una Bugatti avrebbe sfidato le Delage nella categoria principale, oltre i 1500 cc. Nella categoria tornava il vincitore dell’anno prima Gaspare Bona. Con una Talbot correva il campione italiano del 1927 Luigi Arcangeli. Era iscritto il cavalier Enzo Ferrari, che però rinunciò alla gara. Tra i più di trenta iscritti, comunque, il favorito era Pietro Bordino alla guida della sua nuova Bugatti.

(segue)

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La seconda parte

La terza parte