Un attentato a Milano, un cane a San Michele (e un mal di denti dopo Chicago) [Lettera 32]

di Beppe Giuliano

Racconti dell’età del jazz (quinta parte)

 

 

La Stampa il 12 e il 13 aprile del 1928 sottolinea che “gli italiani continuano a dominare” nella super-maratona. “Nella tappa odierna, che aveva per meta Clinton, sempre nel territorio di Oklahoma, il marciatore-fantino Gavuzzi è giunto terzo dopo una magnifica corsa, preceduto al traguardo dal triestino Umek che, come vi dicevo nel mio cablogramma di ieri (sic!), ha un magnifico ritorno, che fa bene sperare per le tappe future. Egli, che è amorevolmente assistito, come lo sono del resto tutti i corridori italiani, è fiducioso ed ha dichiarato di sentirsi perfettamente bene.” (12 aprile). E il giorno successivo: “Ieri era Umeck (stavolta scritto col “ck” – ndr) che giungeva secondo, immediatamente seguito da Gavuzzi; oggi è Gavuzzi che si prende la rivincita non solamente sul connazionale, ma su tutti i concorrenti, con una sicurezza e gagliardia che riempiono di fiducia e orgoglio il cuore degli italiani che si interessano a questa ciclopica prova.”

Lo stesso giorno un trafiletto ci informa di “Milano in attesa del Re per l’inaugurazione della Fiera”, “la città è tutta imbandierata, il podestà e il segretario provinciale dei Fasci hanno rivolto nobili appelli alla popolazione a serrarsi attorno al Sovrano nella giornata dedicata alla celebrazione del decennale della vittoria. Come noto l’inaugurazione della Fiera esposizione fa parte di questo programma.”

I titoli drammatici di prima pagina del giorno successivo danno l’idea di quel che successe:

“Un atto terroristico semina la morte sulla soglia della Fiera di Milano nel giorno in cui, auspice il Re, si esaltano la Vittoria delle armi e quella del lavoro.” (Corriere della Sera)

“Un’esplosione di delinquenza che solleva un grido di più intensa fede nazionale” (La Stampa).

Si parla di 16 morti e 40 feriti, tra “soldati, donne, bambini, agenti e militi”.

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Come succederà altre volte nella nostra storia, quello di piazzale Giulio Cesare è un attentato che resterà senza colpevoli, con molti dubbi mai chiariti e con il forte sospetto che dietro ci siano parti dello stesso Stato (o almeno del partito fascista che allora in larga parte con lo Stato coincideva negli uomini).

L’ordigno scoppia nel basamento di un lampione in ghisa, quindi le schegge prodotte dall’esplosione diventano terribili proiettili che ne amplificano la portata.

Particolarmente colpiscono l’emozione popolare le vicende tragiche dei fratellini Rosina e Gian Luigi Ravera di 8 e 5 anni, entrambi morti, così come in ospedale perirà la loro zia Natalina Ravera, spirata implorando i medici di salvarle il figlio Enrico di 3 anni, ferito a sua volta nell’attentato (neanche lui ce la farà). Morì una “maestrina” (come scrivono i giornali) di Tortona, Natalina Dallacà, 22 anni, in visita a Milano dagli zii.

I fatti strani si accumulano in indagini come sovente accade tortuose.

Il questore, ricevuta il giorno 11 una lettera anonima che preannunciava l’attentato, aveva sì disposto l’arresto preventivo dei “soliti sospetti” (oltre 400 finirono in carcere la sera dell’11) e un servizio di vigilanza e prevenzione lungo tutto il percorso, diretto però solo a individuare individui sospetti e non a cercare eventuali bombe occultate.

Ai funerali delle vittime dell’attentato si uniscono quelli di due militi morti nella caserma di via Mario Pagano. Per un “incidente” si dice, quando un proiettile partito accidentalmente uccide loro e ferisce altri tre commilitoni, secondo la versione ufficiale. Si parlò in realtà di una sparatoria tra fazioni di miliziani in acceso contrasto.

Si segue “la pista rossa” e viene arrestato Romolo Tranquilli (il fratello di Ignazio Silone!) che subisce sevizie e, nonostante l’interessamento di don Orione, morirà in carcere. Sinistre analogie con la vicenda di piazza Fontana, insomma.

Il capo della Polizia sospetta che, nella lotte tra fazioni del partito fascista, si possa essere allungata l’ombra nera (in ogni senso) del “ras di Cremona” Farinacci, in analogia coi molti sospetti già circolati dopo l’attentato bolognese a Mussolini del 1926.

La realtà, che non sapremo mai, potrebbe essere più complicata, coinvolgendo appunto miliziani, ma anche esuli antifascisti, e collaboratori della polizia segreta (quando le figure non coincidevano direttamente).

Anche sul coinvolgimento di antifascisti infatti permangono sospetti e Umberto Ceva, aderente a Giustizia e Libertà, indagato, poco prima di suicidarsi a Regina Coeli nel 1930 scrive: “Ho forse toccato inconsciamente mani impure” e di “incubo terribile che mi ha fatto vedere cose orrende là dove forse non vi è nulla di simile”.

Insomma il mistero, mentre in piazzale Giulio Cesare non c’è nulla che ricordi la strage, non un monumento, una lapide, nulla che rammenti le vittime.

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Nel 1928 Pietro Bordino stava vivendo quello che molti sportivi con fastidio subiscono, e che è particolarmente vero nei motori: la nascita di un giovane concorrente che sembra più veloce, più coraggioso. Aveva quarant’anni, allora un’età non avanzata per i piloti, e il suo rivale più giovane in effetti solo cinque anni meno di lui ma una carriera iniziata molto dopo, a metà anni venti, mentre quella del pilota torinese era tra l’altro stata interrotta dalla Grande Guerra. In condizioni estreme il rivale Tazio Nuvolari aveva superato e battuto, nella primavera di quell’anno, Bordino al Circuito del Pozzo a Verona, e di nuovo alla Mille Miglia. Alessandria doveva essere una rivincita, anche se il mantovano non era iscritto e con l’auto della sua scuderia correva Achille Varzi che proprio Nuvolari aveva convinto a passare dalle due alle quattro ruote.

Pupillo di Vincenzo Lancia e di Felice Nazzaro che lo adottarono poco più che bambino appassionatissimo di meccanica, Bordino ha un ulteriore colpo del destino quando incontra il giovane Ettore Bugatti, milanese che è andato a fare fantastiche auto sportive in Alsazia: sarà proprio lui a mantenere la promessa fatta al pilota tanti anni prima, nel 1908. Ettore Bugatti gli offrirà una sua macchina dopo il ritiro dalle competizioni della Fiat, annunciato nel settembre del 1927 il giorno stesso della grande vittoria a Monza di Pietro col nuovo modello 806.

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“Pareva dopo il tragico incidente di domenica che la corsa dovesse subire un grave colpo, ma la telegrafica iscrizione di Nuvolari che ha compiuto il più nobile gesto sportivo, ha raddrizzato le sorti della gara” (Il Piccolo, 20 aprile)

Nella migliore tradizione del “chi muore giace e chi vive si dà pace” è proprio l’iscrizione di Tazio Nuvolari a raddrizzare “le sorti” del gran premio, ribattezzato dalla Gazzetta dello Sport “Circuito Pietro Bordino” appena pochi giorni dopo l’incidente fatale durante le prove della domenica 15 aprile quando a San Michele, vicino al mulino, un cane secondo alcuni racconti un alsaziano uscito da un cortile si incastra nello sterzo della Bugatti guidata dal pilota torinese. L’automobile che viaggiava a circa 70 chilometri all’ora finisce la sua corsa di punta, in un canale alimentato dalle acque del Tanaro. Il campione sbalzato fuori e portato parecchi metri più in là dall’acqua, annega nonostante l’intervento di un abitante di una delle case del sobborgo, peraltro un medico, mentre all’ospedale non sopravvive alle ferite nemmeno Pietro Lasagni, il meccanico: allora infatti ospitati a bordo della vettura, con estremo incosciente coraggio.

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Intanto i nostri podisti del “bugnone” proseguono la loro risalita verso Chicago, verso la fine del primo tratto che coincide con la Route 66. Arriveranno là solo nella prima settimana di maggio, dopo più di sessanta tappe, senza potersi fermare visto che il giorno dopo sono già diretti a Gary nell’Indiana, un avvicinamento al traguardo del Madison Square Garden che li ha visti percorrere ogni settimana una distanza superiore alle 250 miglia con punte vicino alle 350, cioè tra 400 e 550 chilometri, e che verso New York diventa – come scrive un reporter – “murderous”, assassina. E l’incertezza sul vincitore sarà risolta da un problema fisico del tutto inaspettato, perché a fermare uno dei due corridori ormai staccatisi dal gruppo saranno non problemi ai tendini, o alle articolazioni delle gambe, ma… ascessi ai denti.

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Le fotografie appartengono a un collezionista privato e sono state pubblicate nel 2005 dalla rivista Unindustria

La prima parte

La seconda parte

La terza parte

La quarta parte