La corsa del bugnone [Lettera 32]

di Beppe Giuliano

 

Racconti dell’età del jazz (1)

 

 

Il nome era in realtà ben più altisonante: “International Trans-Continental Foot Race”, la corsa a piedi internazionale trans-continentale.

Accompagnata dal nome dell’organizzatore, quel C.C. Pyle che si vantava le sue iniziali stessero per “Cold Cash” o per “Cash and Carry”, insomma sempre a che fare col denaro che voleva fare a fiumi.

D’altronde questa storia è ambientata nei “ruggenti anni venti”, il decennio in cui le nazioni erano uscite dalla prima, devastante guerra mondiale e tutti pensavano di meritarsi divertimento, al suono della musica jazz, con ragazze col caschetto e la frangetta alla Louise Brooks a ballare il charleston, la danza delle grandi feste, magari tenute nelle ville dei Gatsby dove scorreva a fiumi l’alcol  nonostante il proibizionismo, portato ai ricconi da gangster divenuti loro pure parte della leggenda.

Un decennio in cui le imprese bizzarre non mancavano: i voli transatlantici, infatti Charles Lindbergh completò la prima traversata aerea solitaria dell’Atlantico nel 1927. Le maratone di danza che abbiamo visto in ‘Non si uccidono così anche i cavalli’ con Jane Fonda, uno dei grandi film dell’altra-Hollywood. Le sei giorni di ciclismo, una specialità rimasta tuttora, con la piccola differenza che allora gli atleti competevano per tutti i sei giorni senza fermarsi mai.

O la nostra corsa trans-continentale, che partì all’inizio di marzo del 1928 e si svolse tra Los Angeles e New York. L’organizzatore la annunciò con l’iperbole per cui il vincitore avrebbe “compiuto l’impresa atletica più eclatante di tutta la storia”.

Da subito però la corsa diventò celebre con un nome ben più prosaico, infatti i giornalisti ricorsero immediatamente a tutta la loro perfida ironia e pensando alle condizioni dei piedi dei corridori coniarono “Bunion Derby”.

Bunion si traduce con callo (o alluce valgo), credo sia efficace usare il nostro dialettale “bugnone”.

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Fa un certo effetto leggere le ricostruzioni di quel che succedeva in quel decennio negli Stati Uniti: il boom economico portava i nuovi ricchi a sfoggiare i loro averi con arroganza, mentre era ampliato a dismisura il divario tra chi aveva e chi non aveva. I giornali erano pieni dei racconti delle gesta dei ricchi e famosi, i loro lustrini coprivano la povertà in cui viveva ancora buona parte del paese. Le proteste dei lavoratori che reclamavano condizioni più eque erano represse violentemente. Venivano adottate leggi restrittive per controllare l’immigrazione, basate sul colore delle persone, sul credo politico, sul paese di provenienza. Ricordiamo che tra il 1880 e il 1915 arrivarono (di solito a Ellis Island) quattro milioni di emigrati italiani, un flusso che negli anni venti diminuì sia per le politiche restrittive statunitensi sia per la politica anti-migratoria del fascismo.

I ruggenti anni venti sembravano destinati a non finire mai, come sappiamo invece andò in tutt’altro modo, con il crollo di Wall Street dell’ottobre del ’29, il giovedì nero come lo ricordiamo, e la “grande depressione” in cui la stessa strada percorsa dai nostri corridori nel 1928 fu la via della disperata migrazione degli “Okie” che cercarono fortuna a Ovest dopo aver caricato le loro povere cose e le numerose famiglie su vecchi furgoni, lasciando la “scodella di polvere”, la terra inaridita che non dava più raccolti sufficienti a mangiare (e a pagare i mutui alle banche). Ce l’hanno raccontato i libri di John Steinbeck, le ballate di Woody Guthrie e forse più di tutto le fotografie, a iniziare da quella “Madre migrante” scattata da Dorothea Lange e che ritraeva Florence Owens Thompson, una madre di sette figli nata da genitori Cherokee in quelli che erano i territori indiani e poi divennero appunto l’Oklahoma, il quarantaseiesimo a unirsi alla confederazione nel 1907, che come vedremo sarà cruciale nella nostra corsa.

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La nostra corsa trans-continentale era stata pensata per promuovere una strada, simbolo del progresso che iniziava a fare circolare numerose le automobili, soprattutto le Ford modello-T che uscivano dalla catena di montaggio inventata a Detroit da Henry Ford, che ne aveva appena abbassato sensibilmente il prezzo.

All’inizio del decennio la maggior parte delle strade americane era ancora destinata a essere percorsa a cavallo o coi carri, come i cowboy avevano fatto meno di un secolo prima. Nel 1921 venne la legge federale che obbligava a costruire autostrade, seguita dalla decisione di designare con numeri pari le strade che andavano da est a ovest, dispari quelle da nord a sud. Ci fu una lunga battaglia per assicurarsi il titolo di Route 60, perché quelle con il numero delle decine dovevano essere le più importanti. Alla fine Cy Avery, che voleva costruire una strada da Chicago fino a Los Angeles, cedette il 60 a quella che collegava Newport News in Virginia e  Springfield in Missouri. Rimaneva libero il numero “66” così, da una diatriba, nacque un mito. Oggi nessuno sa dove andasse la Route 60 mentre tutti, nel mondo, conoscono la “strada maestra”.

La Route 66

Che negli anni venti doveva essere pubblicizzata, e il responsabile delle pubbliche relazioni, Lon Scott, propose una corsa podistica. Di 3.422 miglia, più di 5.500 chilometri. Quando lo annunciò, a una cena di seri uomini d’affari appunto in Oklahoma, questi iniziarono a intonare, con sempre maggiore convinzione: Foot race. Foot race. Foot race! E un giornalista presente scrisse subito: Questa è l’idea che farà più pubblicità al percorso dell’autostrada nel sud-ovest di ogni altra trovata realizzata finora.

Venne dunque il coinvolgimento di C.C. Pyle, che escogitò diversi modi per fare soldi dalla corsa, e nonostante ognuno dei partecipanti dovesse pagare 100 dollari di iscrizione (quando un operaio della Ford ne guadagnava 25 a settimana) rimborsati solo a chi sarebbe arrivato al traguardo, dove il vincitore avrebbe incassato un favoloso premio di 25.000 dollari, furono oltre 200 gli iscritti e 199 a partire effettivamente da Los Angeles, il 4 marzo 1928, tra l’entusiasmo di un pubblico di mezzo milione di persone.

(segue)