Piazza Rattazzi, Caffè dell’Aquila, Palazzo Municipale, Teatro Municipale e Lucia Lunati #14 [Un tuffo nel passato]

frisina_caldi Tony Frisina

 

La nostra cavalcata sull’onda del placido mare dei ricordi narrati da Lucia Lunati in La mia cara Alessandria sta per volgere al termine.

Il libro di cui da qualche settimana ci stiamo occupando è di piccolo formato e di poche pagine e purtroppo si legge in fretta. Tanti sono i ricordi che avrei voluto ancora conoscere e raccontare ai miei lettori ma – purtroppo – dobbiamo accontentarci di quei pochi che la signora Lucia ha voluto tramandare ai posteri. Certamente nella sua vita di ragazza birichina avrà vissuto tante avventure, seppure la maturità sopraggiunta le avrà regalato certamente saggezza. Tante marachelle, quindi, sarebbero state soltanto legate ai ricordi di gioventù. Pazienza, accontentiamoci di ciò che la sorte ci ha riservato e ci ha tramandato attraverso il suo prezioso gioiello letterario.

“Altro ricordo della mia casa era una vite poderosa con un tronco grosso come un albero da frutta. La mamma diceva che l’avevano trovata così quando vi andarono ad abitare. Questa vite che dava uva moscato bianca, saliva sino al primo piano ove avevamo il nostro alloggio e si diramava per tutta la lunghezza del ballatoio formando un bel pergolato. Il nostro contadino veniva a curarla a seconda delle epoche ed era veramente da invidiare per l’abbondanza di grappoli che dava. La cosa più curiosa era che l’uva maturava in anticipo cioè a tempo di quella lugliatica, perciò oltre un mese prima del moscato di vigna. Era una cosa d’eccezione se poi pensiamo o consideriamo che la vite era piantata in un cortile. Questo era motivo di curiosità da parte di tutti quelli che ci conoscevano o frequentavano il cortile sicché quando era il momento di raccogliere l’uva e offrirla ai nostri vicini di casa, di notte qualcuno delle case vicine doveva venire a rubarla mentre noi dormivamo. Non ci lasciavano che i pochi grappoli nascosti che per la fretta non vedevano sicché a noi restava ben poca cosa. Pensare che ci fossero dei ladri di uva, oggi fa sorridere per tanta innocenza ma allora era cosa notevole.

La beffa più feroce e da incoscienti, l’abbiamo fatta al padrone di una fabbrica di oreficeria che aveva il laboratorio appunto nel nostro cortile e precisamente al signor Florè. Costui era pure proprietario del caffè dell’Aquila, che era in piazza Rattazzi ove ora vi è il nuovo palazzo della Banca del Lavoro, allora casa Capurro.

La fabbrica ove lavoravano una decina di operai aveva una certa rinomanza e a volte facevano i turni di notte. Non so per quale procedura di lavoro, ma ogni tanto lasciavano acceso di notte una specie di fornetto con del carbone che durava tutta la notte, ove era posto un recipiente pesante e spesso. Questo noi lo vedevamo attraverso i finestroni della fabbrica e d’estate, a vetri aperti, ancora meglio. Quella sera, vagando per il cortile, era di domenica nel cuore dell’estate, vedemmo quel focherello che però ci era apparso un po’ più ardente del solito, quasi fiammeggiante. Pensammo di esagerare e di scoprire un principio di incendio, e di avvisare tempestivamente il signor Florè. Andammo così al caffè dove il proprietario stava dirigendo il servizio dei camerieri tra i tavoli tutti affollati di clienti e senza tanti preamboli lo avvisammo che c’era il fuoco nella sua fabbrica. Lui ci conosceva e, poveretto, pensò che fossimo state incaricate di questa missione in tutta urgenza. La faccia stravolta che per l’occasione avevamo assunto per dare maggiore verità alla notizia non poteva certo metterlo in sospetto che si trattasse di uno scherzo. Non è difficile immaginare la reazione di quel poveretto. Si mise le mani nei capelli e ancora col tovagliolo in mano, gridando « il fuoco, il fuoco » si mise a correre seguito dai suoi camerieri, attraverso la piazza Rattazzi sempre gridando e agitando le braccia. La gente che gremiva la piazza per la solita musica domenicale, si accodò a quelli che già formavano la fila e a poco a poco si ingrossò al punto che quando il Florè arrivò alla fabbrica la gente aveva invaso tutta la strada ed io ed Elena, piene di paura per quanto stava succedendo, non potevamo neppure rientrare in casa. Rimanemmo smarrite perché capimmo che avevamo passato il limite dello scherzo, ma ormai era tardi. Meno male che non furono avvisati i pompieri che allora avevano le pompe nel palazzo Municipale, a due passi. Quando il Florè si rese conto di quanto era successo e la folla a poco a poco se ne tornò per i fatti suoi, noi rientrammo in casa in attesa della burrasca inevitabile da parte dell’interessato. Per quella sera tutto andò liscio ma il giorno dopo non furono tanto gli schiaffoni quanto le giuste prediche delle nostre famiglie. Ciò che più mi fece dispetto in seguito è che ogni volta che incontravo il Florè si metteva a gridare con un’aria beffarda « al fuoco, al fuoco », e questo ancora quando ero già signorina, con rabbia da parte mia per chi passandomi vicino sentiva questa frase.

Un solo inquilino non ebbe mai motivo di lagnarsi di noi. Era il signor Casolati, violoncellista per eccellenza che faceva parte dell’orchestra del teatro Municipale. Ogni tanto, ci vedeva volentieri e forse comprendeva queste nostre continue irrequietezze. Ci permetteva di andarlo ad ascoltare quando suonava in casa sua. Quando eravamo sedute davanti a lui eravamo assorte e non ci muovevamo più finché non aveva terminato il pezzo. A me pareva che quell’istrumento avesse un’anima, che contenesse delle viscere da cui uscivano quei suoni tanto umani da restare rapite, e lui, poveretto si compiaceva di questa nostra comprensione non senza stupirsene e ci complimentava. Forse, senza saperlo, faceva come l’incantatore di serpenti.

Però, quando nelle grandi occasioni, lui partecipava con l’orchestra e doveva mettersi in pompa magna, lo vedevamo uscire in marsina, con il suo ingombrante istrumento, quasi più grande di lui, che se lo portava non senza un po’ di imbarazzo. Era basso, mingherlino e claudicante, camminava sbilenco quasi a far da contrappeso al violoncello. Noi non ci si poteva trattenere dal ridere anche se lo facevamo sommessamente e quasi con rispetto e comprensione per la sua bravura e per la sua età.”

Ho pensato di estrarre dal mio archivio – e di mostrare – due cartoline di un certo interesse.

La prima illustra in maniera chiara la facciata del palazzo in cui aveva sede il Caffè dell’Aquila, descritto da Lucia Lunati, proprio negli anni di quei ricordi. La cartolina è stata spedita nel 1902 e può essere più vecchia di qualche anno.

Piazza Rattazzi, Caffè dell’Aquila, Palazzo Municipale, Teatro Municipale e Lucia Lunati #14 [Un tuffo nel passato] CorriereAl

Il palazzo Municipale che si vede ben nitido in questa immagine ospitava il Teatro Municipale in cui si esibiva l’Orchestra di cui qui si parla.

Baudolino Tasso è l’editore locale di questa cartolina ed il prodotto tipografico che ne è derivato è estremamente raffinato sia per il tipo di stampa che per il cartoncino usato.

La seconda cartolina a corredo di queste note è ben più recente e molto più interessante rispetto alla precedente. Oltre ad una bellissima animazione di persone mostra una situazione successiva alla precedente, in cui si possono osservare diverse modifiche intervenute nel frattempo.

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Questa seconda cartolina è stata spedita nel 1941 ma è certamente più vecchia di almeno quattro o cinque anni. L’editore di questo soggetto, visibile in un acronimo al verso, è P.V.A. (Piazza VincenzoAlessandria).

Le vetrine del Caffè, in entrambe le illustrazioni, sono state riprodotte con un ingrandimento, per dar modo di lasciar apprezzare al meglio particolari di difficile osservazione.

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