Il granchio nella buca di Fabrizio Altieri [ALlibri]

a cura di Angelo Marenzana

 

 

Ospite di ALlibri di oggi è lo scrittore Fabrizio Altieri che, con il suo romanzo Il granchio nella buca pubblicato da Oligo Edizioni, ci accompagna nella Toscana degli anni Sessanta, là dove il destino del giovane Muccio pare segnato. Si tratta di un libro con cui l’autore vuole celebrare la sua Toscana e le sue persone conosciute durante l’infanzia o che hanno fatto parte della sua famiglia. «Con le loro rughe, i detti e i tratti caratteriali, che rimangono vivi anche se loro non ci sono più. Celebro la voglia di mistero che mi ha sempre pervaso fin dalla scoperta di Philip K. Dick e dei suoi mondi, costruiti da forze ineffabili per imprigionare l’uomo, all’oscuro del fatto che l’universo in cui si muove è solo una messinscena costruita ad arte per fini imperscrutabili. Che poi è l’essenza della letteratura, e ciò che ogni scrittore tenta di compiere nei confronti dell’ignaro, ma complice, lettore».

Fabrizio Altieri racconta dell’attività commerciale del padre di Muccio che, per convincere il figlio a seguire le orme paterne, lo manda in un paesino sulla costa a trovare una cliente, una vecchia signora che ha fatto un ordine eccezionale di mobili. Ma quando Muccio arriva la donna è scomparsa senza lasciare tracce. Il ragazzo, con un colpo di testa che mai avrebbe immaginato di saper fare, decide di mentire al padre e trattenersi in paese con una scusa per indagare sulla scomparsa.
Fa così la conoscenza degli strani abitanti del borgo, e del loro curioso modo di vivere che sembra nascondere mille segreti. Tra tutti c’è Vera, la cameriera della locanda, che somiglia molto a Liz Taylor e di cui lui immediatamente si innamora, ricambiato.
Muccio passa le sue giornate in una specie di limbo, tra passeggiate sulla spiaggia insieme a un ragazzino che fa l’accompagnatore di un giovane pazzo e il proprio sogno da novello Maigret che indaga sulla scomparsa della donna.
Il clima si fa sempre più onirico e inquietante fino a quando a Muccio sembra di vedere da lontano l’auto del padre, che però non riesce a raggiungere. Mentre in un centralino, tra due telefoniste, si consuma una tragedia che chiarirà l’epilogo della storia.

Fabrizio Altieri è nato e vive a Pisa. Dopo il diploma di liceo classico si è laureato in ingegneria. Ha pubblicato libri per ragazzi e per bambin nelle collane Il Battello a Vapore (PIEMME) e in Storie e Rime (Einaudi Ragazzi).

Buona lettura con l’estratto del suo Il granchio nella buca.

 

 

Un qualche pettine di gigante doveva aver pettinato quelle colline e diviso i capelli in filari di vigne colorate di rosso. Poi Muccio dal finestrino del treno vide che quelle vigne, che sembravano passare per caso, si facevano più rare e di quel rosso che davano al vino che consola i vecchi e dà fuoco ai giovani. La borsa di pelle lucida che il babbo gli aveva regalato quando l’aveva assunto, il primo giorno di lavoro, la teneva sulle ginocchia. Era marrone chiara e dopo un mese mostrava qualche segno che la rendeva, se possibile, più bella. L’aveva fatta fare al cuoiaio di Siena, quello che tossiva sempre tanto da non riuscire a parlare, ma tanto che aveva da dire? Faceva cenno di sì e di no tra un colpo di tosse e l’altro e poi ti dava quello che gli avevi chiesto e te lo faceva pagare. Tanto. E riscuoteva, sempre con quella tosse, e si capiva che la pagavi anche quella oltre il cuoio, i chiodi e tutto il resto. La tosse la pagavi, e cara, ma il risultato del puzzo di colla, ragia e solventi era quell’odore di cuoio che la borsa avrebbe emanato anche dopo che tu e il cuoiaio sareste morti.

 

A Muccio glielo aveva detto Nedo, il venditore più vecchio di suo padre, così vecchio che era dovuto andare in pensione e non se n’era mai dato pace. Non camminava più per via d’un colpo e lo portavano su una carrozzina, ma il venditore con più esperienza di tutti rimaneva lui, non c’era verso, e il babbo ce l’aveva fatto parlare prima di partire.

– Per primo devi andare dal prete – gli aveva detto senza nemmeno salutarlo, tanto lo sapeva già perché il babbo l’aveva portato lì in casa sua. Poi gli aveva dato i consigli su come muoversi con i clienti, come parlare e verso quali mobili indirizzarli perché poi fossero invogliati a comprarne altri.

– Se comprano il letto poi vorranno i comodini e ecco che prima che se n’accorgano l’hai venduto tutta la ‘amera ‘ntera -. Intanto con la mano buona si versava vino nel bicchiere da un fiasco di bianco che il babbo gli aveva portato, bevendolo come se fosse acqua.

 

Muccio percorse la strada verso il campanile per seguire il piano di Nedo: prima di tutto il prete. Nell’unica piazza del paese suonò il campanello a quella che sembrava la canonica e dopo poco la porta si aprì e c’era un prete sulla soglia. Il prete era diverso da quello del suo paese, questo non aveva la tonaca. Era vestito di nero e il collo era stretto dal colletto bianco da prete, ma aveva i pantaloni e la giacca come un uomo. Erano proprio differenti da loro quelli lì della costa! Il prete di Muccio non si sarebbe mai conciato in quel modo, senza la tonaca. Non che a Muccio importasse, era comunista come tutta la sua famiglia, fuorché la mamma, certo gli sembrò strano.

– Cosa desiderate? – chiese il prete.

Muccio si presentò e gli spiegò che era venuto per far vedere il catalogo dei mobili a una cliente che l’aveva chiamato di quel paese. Il prete non sembrava interessato a quel che Muccio diceva e lui pensò che stava per trovare una scusa per chiudergli la porta in faccia, ma quando disse il nome della vecchia la faccia del prete cambiò di colpo. Lo fece entrare e lo portò in un tinello tutto di noce, che l’occhio esperto di Muccio stimò subito al centesimo e la stima era notevole. Il comunista in lui si scandalizzò ma il mobiliere sorrise, era bello vedere un tinello così anche se era di un prete.

– Lei la conosce, la signora? – il suo tono era deferente come se parlasse di una qualche santa e questo gli confermò che quella vecchia doveva essere un pezzo grosso. Gli disse che aveva parlato per telefono col babbo più d’una volta, ma che di persona non s’era mai vista.

Il prete disse che era tardi per andare dalla signora e intanto l’avrebbe portato lui da una signora che affittava le camere, poi la mattina dopo si sarebbero rivisti.

 

Il prete era arrivato in anticipo perché quando Muccio uscì lui era già fuori ad aspettarlo. Lo portò al bar a fare colazione e Muccio notò che era un bar da poco. Usciti dal bar lo condusse fino alla caserma dei carabinieri. Muccio una volta lì davanti si fermò sorpreso:

– Ma non si doveva andare dalla signora? – chiese. Il prete annuì:

– Sì, ma prima è bene che parliate con il maresciallo, ha da chiedervi qualcosa e informarvi su qualcos’altro – poi per la prima volta accennò un sorriso:

– Non vi preoccupate, non v’arresta mica -. Muccio non ne fu convinto, per niente. Quel prete gli dava del voi come era d’uso qualche anno prima quando c’era sempre Mussolini, e poi lo portava dai carabinieri. Questa mistione di preti, sbirri e seconde persone plurali era quanto di più preoccupante gli si potesse parare davanti. Ma entrò lo stesso col prete in caserma senza far storie, ancora per quel bene superiore al quale sempre si appellava nei momenti di difficoltà: vendere i mobili del babbo. Il carabiniere gli fece le stesse domande del prete, tanto che Muccio pensò che i due avrebbero potuto benissimo scambiarsi le parti, dato che il carabiniere aveva la faccia da prete e il prete da carabiniere. Alla fine però Muccio sbottò:

– Mi scusi, ma perché mi fa tutte queste domande? È successo qualcosa alla signora? -. Il maresciallo guardò il prete come a chiedergli il permesso e quello glielo diede confermando a Muccio l’intima dipendenza delle istituzioni civili dalla Chiesa Romana e disse:

– La signora è scomparsa da tre giorni e non se ne sa più nulla.

 

Quando Muccio si fu seduto notò l’uomo col neo a sputo alla liquirizia che portava i piatti. L’altro lo vide ma fece finta di nulla e per un po’ lo ignorò anche se si era già seduto a un tavolo libero, poi fece un cenno e una ragazza venne al tavolo di Muccio. Gli snocciolò cosa c’era da mangiare a memoria, in verità era poca roba e poi si chetò aspettando l’ordine. Ma Muccio non ordinava e lei, pensando che lui non avesse afferrato i piatti o se li fosse già scordati li ripeté, stavolta più lentamente, come se fosse scemo. È che lui la guardava senza capire perché Liz Taylor fosse in quella locanda a servire ai tavoli. Perché quella era Liz Taylor, non c’era dubbio, anche se l’uomo col neo a sputo la chiamava ‘Vera’.

 

Muccio decise che dopo colazione avrebbe mentito al babbo.

– Buongiorno babbo – disse Muccio per prendere tempo in attesa del fruscio confonditore che non sarebbe mai giunto.

– Allora? – il tono del babbo era impaziente ma non arrabbiato.

– Non è ancora tornata è in una sua proprietà a contare i sacchi del grano raccolto – inventò. Quel particolare gli era sembrato adeguato per il babbo che si doveva essere fatto l’dea che la vecchia fosse una ricca che voleva sì spendere, ma che stava attenta ai suoi interessi. Infatti il babbo sbuffò soddisfatto come quando si è ricevuta una notizia che conferma un pensiero covato da tempo in testa. Il fruscio non arrivava e Muccio si rassegnò a attaccare allo scoperto senza la protezione sperata, un attacco repentino, disperato.

– Sua sorella, ci ho parlato, ha detto che torna tra sette giorni -. Il babbo tacque. Muccio sapeva che stava esaminando il tono di voce, perché anche se suo figlio non gli aveva mai mentito, lui però si aspettava lo stesso qualcosa prima o poi, ché le persone non le finisci mai di conoscere, specie i figlioli, diceva. Un piccolo schiocco, dovuto all’elettricità statica, sembrò segnare la fine di un tempo cronometrato e il babbo parlò:

– Allora resta, questo affare val la pena. Ma devi dirgli che se vuole i mobili ti deve dare la metà dei soldi subito – e riattaccò. Muccio restò con la cornetta all’orecchio ancora un po’ a sentire il verso monotono del telefono come se ci fosse ancora il babbo. Dentro di sé sperava che ricomparisse la sua voce e dicesse che ci aveva ripensato che doveva tornare a casa subito e la vecchia andasse a quel paese. Si era già pentito di aver detto quella bugia, non per la cosa in sé, ma perché ora non sapeva più che fare. Con il tùtù nell’orecchio si era accorto che non era mai stato libero come in quel momento e la paura lo aveva preso. E il tùtù sembrava una voce con un dito puntato che gli diceva tocca a te, a te, ma sei solo e pensò che l’unico modo di essere liberi per davvero fosse rimanere soli.

Muccio decise che doveva conoscere meglio quei luoghi per entrare nella testa della vecchia scomparsa e riuscire a ritrovarla. Così prese a girare per il borgo facendo attenzione a tutto quello che gli si parava davanti. C’era la piazza con la chiesa e l’osteria con accanto il negozio di alimentari tenuto sempre da Vera e suo padre. Non c’erano altri negozi in paese tranne una macelleria che però era chiusa con un cartello ‘per motivi di salute’, così l’unica carne che si poteva trovare era quella dell’osteria. Non c’era un’edicola come al paese suo, ma in un borgo così piccolo era normale, non sarebbe andata avanti per molto con quei pochi abitanti. Per la strada si vedeva poca gente.

Andava chiamato il babbo anche se non c’erano novità. Ormai era qualche giorno e Muccio temeva che la mamma si preoccupasse. Il babbo no, non si preoccupava mai per lui. Ma la mamma no. Andò all’osteria e stavolta gli dissero che il telefono andava. Il babbo rispose subito, tanto che Muccio pensò che stesse a sua volta per alzare la cornetta per chiamare qualche fornitore. Lo salutò, ma il fruscio era forte e la voce dall’altra parte gli arrivava smozzicata. Il tono del babbo però era strano, diverso da come l’aveva mai sentito, non solo al telefono, ma anche dal vivo. Stava dicendo qualcosa, ma non si riusciva a capire il senso compiuto delle frasi. Lui cercava di dire qualcosa a sua volta, ma capiva che anche di là si sentiva qualcosa di incomprensibile. Poi finalmente distinse la voce del babbo che chiedeva:

– Come stai? Dimmi come stai – e poi la linea cadde. Tentò di richiamare più volte, ma non ci fu niente da fare. Ci sarebbe stato da ridere di quella scena comica, ma Muccio era turbato per la telefonata. Quel tono di voce nel babbo non s’era mai sentito, sembrava preoccupato.

– Si sa nulla della signora? – chiese Vera.

– Sembra scomparsa nel nulla. Ma io credo che riapparirà -. Lei si morse il labbro inferiore come non gliel’aveva mai visto fare.

– E se non tornasse? Tu che farai? -. Temeva che lui se ne andasse e di non rivederlo, era chiaro per Muccio. Provò una fitta di dolore e di orgoglio; soffriva per lui.

– Io dovrò tornare a casa, ho quasi finito le ferie, nessuno nella ditta fa un giorno in più delle ferie che gli spettano e il babbo non farà certo un’eccezione per me -. Però ti porto con me, avrebbe voluto aggiungere, ma non lo fece; sapeva che era assurdo. La vita di Vera era lì, con suo padre e l’osteria e la sua era al paese, a vendere mobili e girare l’Italia. Si chiese che senso avesse tutto quello che stava accadendo, perfino quella passeggiata mano nella mano, e gli prese il desiderio di fare le valige e tornarsene a casa e al diavolo quel paese, la vecchia e i suoi mobili! Poi però lei si fermò e gli chiese di baciarla e la voglia di scappare svanì.

 

Ormai aveva deciso, il giorno dopo se ne sarebbe andato. Pensò di chiamare il babbo per dirglielo. Il telefono dell’osteria funzionava, chiamò ma il telefono dell’ufficio squillava a vuoto.

Quando era arrivato aveva visto una specie di biglietteria alla stazione, chiusa forse perché era l’ora di pranzo. Sarebbe andato a fare il biglietto. La vedeva in lontananza, sembrava abbandonata, però vide un’auto ferma proprio davanti all’edificio della biglietteria. Chissà come c’era arrivata, lì strade asfaltate non ce n’erano. Poi si rese conto che la macchina era una Lancia Appia, lo stesso modello di quella del babbo. E poi vide il babbo. Camminava veloce quasi correndo e si guardava intorno e per quello incespicava sul terreno sconnesso. Il babbo era venuto a riprenderlo e si era perso. Per la sorpresa esitò prima di chiamarlo e quando lo fece lui stava salendo sulla macchina. Gridò, ma aveva perso l’attimo e il babbo ripartì.

– Accidenti! – imprecò, stava andando dalla parte opposta rispetto al paese, sbagliava strada chissà dove sarebbe finito. Ma che ci faceva lì?

Appena in paese guardò nella piazza per vedere se il babbo fosse riuscito a trovarlo e poi girò in tutte le strade, ma non trovò traccia del babbo né dell’Appia. Forse aveva desistito e era tornato a casa e domani l’avrebbe chiamato per dirgli di andarsene.

 

Tornò sulla via della pensione e la percorse in senso opposto alla piazza fino a uscire dal paese sulla strada sterrata che gli avevano detto essere. Quando trovò una sbarra a strisce bianche e rosse col cartello ‘Non oltrepassare’ Muccio stava per scavalcarla, ma vide muoversi dall’altra parte due figure. Si buttò nella boscaglia steso a terra sperando che non lo avessero visto. Sentì i passi sulla strada e le voci basse di due uomini.

– Stanno per farlo, bisogna muoverci – Muccio riconobbe la voce del maresciallo.

E di lui che si fa? – chiese l’altra voce, ma non la riconobbe. Passarono oltre e Muccio non riuscì a sentire altro.

Qualcuno lo chiamò, ma lui fece finta di nulla e proseguì. Sudava freddo, ormai era a pochi metri dall’imbocco del vicolo; fece qualche passo più lungo, vi entrò e c’era il maresciallo col fucile puntato verso di lui.