La coda dell’occhio (2) [Il Superstite 443]

ATO6: "Crisi idrica, i cittadini siano più parsimoniosi con l'acqua" CorriereAl 1di Danilo Arona

 

La prima volta che ho letto il termine  “Zona Zero” è stato in un racconto di Sergio Altieri, con lo stesso titolo, che descriveva così dei luoghi particolari dove si vedono “cose” che non appartengono alla legge della fisica. Questi luoghi possono essere dovunque. Se cosi è, proviamo a ipotizzare una Cosa-Pianeta in qualche modo regolata secondo le teorie dei campi morfogenetici (Conrad Waddington e Rupert Sheldrake), che, riducendo all’osso, sostengono l’esistenza di una memoria della natura e che i sistemi della medesima siano organizzati non solo dalle leggi conosciute della fisica, ma appunto da sistemi invisibili detti “morfogenetici”.

Sheldrake, biologo inglese nato nel 1942 propose l’idea dei campi morfogenetici (dai termini “morphè, forma, e “génesis”, processo del generare) nel libro A New Science of Life, campi “informativi” che in altri ambiti sono detti anche Matrix, Reticolo di Akasha, Anima Mundi, Anima collettiva e Inconscio collettivo (con estensioni concettuali anche al noto concetto junghiano di Sincronicità).

Così dal sito www.riflessioni.it:

«Sulla base delle ricerche di Douglas Mac Dougall dell’università di Harvard, Sheldrake sostenne l’ipotesi di forze immateriali che sarebbero generatrici della forma in seno alla materia. L’ipotesi morfogenetica, provata scientificamente nel 1998, presuppone l’esistenza di una memoria collettiva diffusa in tutto l’universo, indipendente dal supporto cerebrale e tale, quindi, da sopravvivere alla morte. Per questa loro natura i campi di risonanza morfica, portatori di memoria, sono retti da leggi che si sottraggono allo spazio-tempo, richiamando piuttosto quelle dell’affinità e delle corrispondenze: “tra organismi esiste un misterioso collegamento di tipo telepatico, oltre la dimensione spazio-temporale”. I campi possiedono una memoria intrinseca (individuale e collettiva), si basano su ciò che è accaduto in precedenza e sono portatori di abitudini e caratteri ereditari. Ogni livello di organizzazione possiede un proprio campo morfico: la collettività, i singoli esseri viventi, gli organi. Sheldrake ritiene anche che i campi morfici di ciascun individuo sono in collegamento con quelli di tutti gli altri individui. Ogni pensiero è energia e come tale viene ancorato in questi campi elettromagnetici di memorizzazione. Così avviene anche per qualsiasi “azione” o “avvenimento”. Ciò significa che in essi si trova ancorato e memorizzato tutto il sapere dell’umanità fin dalle origini e che caratterizzano e influenzano tutte le forme fisiche e persino il nostro comportamento. Le cose che impariamo, pensiamo e diciamo influenzano anche gli altri per mezzo della risonanza morfica. Le più recenti scoperte della biologia sembrano convalidare l’ipotesi di un meccanismo per cui energie “ordinatrici” ancora sconosciute operano sulla materia organica, organizzandola e promuovendo gradualmente in essa la Coscienza. Quest’ultima è presente, a diversi livelli, in tutta la sostanza dell’universo; si sviluppa gradualmente nel corso dell’evoluzione, nei passaggi attraverso il regno minerale, vegetale, animale; nell’uomo, sintesi di tale lungo processo evolutivo, raggiunge, nel nostro Pianeta, il suo livello più avanzato. Il che riporta all’equivalenza tra energia e materia; ogni sostanza visibile è energia condensata, ossia energia a stadi vibrazionali più bassi rispetto allo “spirito”; solo a queste condizioni tale energia può manifestarsi concretamente nello spazio e nel tempo e permettere l’esistenza di forme di vita percettibili così come noi le conosciamo. Tra materia e spirito vi è quindi solo una differenza di vibrazione; sta all’uomo “spiritualizzare il piano fisico”

Tutto questo comporta ovviamente una duplice ricaduta. L’una in positivo, che sembrerebbe far capo al succitato progetto globale di spiritualizzazione del piano fisico. L’altra, di segno contrario, che si rifà all’esistente e che si presenta come la concretizzazione materiale di una teorizzazione metafisica che presuppone l’esistenza di una gigantesca, immane cupola energetica di paura (intossicante spazzatura in forma larvale) che abbiamo creato addosso al pianeta e che a sua volta ricicla l’angoscia di chiunque…”. Un’ottima ri-definizione di questo nebuloso concetto l’ho trovata all’interno del blog Zret.blogspot.com alla voce “Tanatosfera” e val la pena di riportarla per intero:

«La biosfera è quel sottile involucro, comprendente parte della litosfera, dell’idrosfera e dell’atmosfera del nostro pianeta, in cui nascono e si sviluppano le varie forme di vita vegetale ed animale. Tuttavia, mai termine mi è sembrato meno appropriato per indicare una realtà diametralmente opposta. Infatti, anche se prescindiamo dalle carneficine, dalle guerre, dai massacri che insanguinano e insanguinano la Terra, dai milioni di animali sacrificati un tempo sugli altari degli dei, oggi sulle mense di un’umanità vorace, anche se cerchiamo di dimenticare che la vita, pure quella di un semplice filo d’erba, si alimenta della morte, anche se chiudiamo gli occhi per non vedere che le splendide meraviglie della natura sono soltanto un sembiante su un volto putrefatto, come non avvertire che, come disse qualcuno, la Terra è l’inferno di un altro mondo? Siamo invischiati in una ragnatela magnetica. Energie invisibili, ma negative ci compenetrano. Il cielo è opaco, il sole pallido ed esangue, l’acqua è amara, il suolo avvelenato. Spesso sono sensazioni indefinibili, sfuggenti, ma che ci lasciano con uno strano, immedicabile malessere. Qualcosa non quadra: si ha l’impressione di vivere in una discarica da cui esalano miasmi di pensieri ammorbanti. I salmi biblici che celebrano la divina bellezza del creato, sono un’eco lontanissima. Questa non è la biosfera, l’ambiente della vita, ma la Tanatosfera, lo spazio della morte

L’intuizione di chi ha scritto queste righe – Rosario Marcianò, figura di primo piano nel sottobosco del complottismo italiano, ma in questa sede non intendo dare giudizi –  è notevole. Il pianeta è infestato, non soltanto a livello fisico (ovvero inquinato). Ma soprattutto sul piano sottile. Come accade, appunto, per le haunted house, ovvio per chi ci crede. E le infestazioni, non di rado, si manifestano visivamente. Non a tutti ma a tanti.

In sintesi, le collisioni e gli accostamenti, mi pare, siano chiare Se nella “Tanatosfera” persistono tracce energetiche oscure, negative, in che razza di posto stiamo tentando di vivere? “Cosa” percepiscono migliaia e migliaia di Renfield-sensitivi da anni a questa parte? Cosa significano – o meglio, comunicano – centinaia di sogni condivisi che si basano tutti su poche immagini che ritornano puntuali (potrei evitare di citare l’Onda, ma ci stanno pensando peraltro i Telegiornali…)? Quanti Danny Torrance stanno camminando per le leys del pianeta e captano immagini emotivamente destabilizzanti?

Un parziale, importante contributo, a questi fili sparpagliati di discorso, può giungere ancora da Castaneda e dalle sue cosiddette “rivelazioni segrete” sui “Voladores”. Castaneda ne parlò nel 1993, poco prima di morire. Disse che solo il potere di visione degli sciamani può individuare queste forme fluttuanti nell’aria (The Flyers o, nell’originale spagnolo del maestro Don Juan, “los Voladores”), presenze maligne chiamate nelle culture tribali del Sudamerica “predatori oscuri”. Ma in non pochi casi tali creature vengono fuggevolmente percepite da tanti “normali” sulla Terra esattamente con “la coda dell’occhio”.

Quella che segue è un frammento di un intervento che Castaneda fece a Santa Monica, in California, nel 1993: «Il mio nome è Carlos Castaneda. Vorrei pregarvi di una cosa. Vi prego di sospendere per oggi il giudizio. Vi prego di aprirvi anche solo per un’ora alla possibilità che sto per presentarvi. Gli antichi stregoni si accorsero per primi che qualcosa non andava per il verso giusto. Essi videro che nei bambini la consapevolezza non si sviluppava come sarebbe stato naturale. Inquietati da questa incongruenza gli stregoni estesero le loro indagini e scoprirono la presenza di esseri oscuri posti direttamente sullo sfondo del campo energetico umano e per questo difficilmente individuabili. Gli stregoni videro che questi esseri oscuri si cibavano della lucentezza della consapevolezza di ogni individuo… Le entità oscure sono particolari esseri inorganici, coscienti e molto evoluti e poiché si muovono saltellando o volando come spaventose ombre vampire furono chiamati los Voladores, ovvero “quelli che volano’.” Castaneda riferì più volte di oscure ombre ai margini, o appena fuori, dal campo visivo.

Concludo con un esempio letterario tratto dal famoso racconto Horlà di Guy De Maupassant, risalente al 1887, dove un  essere mostruoso che minaccia il protagonista-narratore, lo insegue e lo ossessiona, fino a spingerlo a incendiare la propria casa per liberarsi dal “nemico”, è invisibile, non localizzabile e non nominabile: un essere “che non può definirsi se non come la non-identità, ad un tempo presente e assente, dentro e fuori, hors-là (fuori di là)”. Il nome che gli fornisce l’ossessionato protagonista “deriva dall’impossibilità di nominarlo nel linguaggio degli uomini, di situarlo (fuori o là) nello spazio che crea le distanze e conferma le identità”.

Il mostro non si rivela alla percezione diretta, si sottrae a qualsiasi possibilità di essere visto nella sua interezza, però è presente: c’è e non c’è simultaneamente, contro ogni regola di logica, anzi è un vuoto, una traccia “ubiqua” percepita sul confine del campo visivo, che riesce a manifestarsi proprio per la sua cifra negativa: è, insomma, un mostro potenziale, la mostruosità quasi in essenza e in astratto.

Come più di un critico ha notato, abbiamo forse a che fare con uno straordinario caso di patologia mentale, per il quale Maupassant utilizzò anche la propria esperienza di malato: tuttavia, al di là della matrice autobiografica e anche oltre l’ambiguità che caratterizza in modo magistrale il racconto (attraverso l’alternanza tra elementi finalizzati a presentare il narratore come inattendibile ed elementi atti a provare in modo indiscutibile l’esistenza dell’essere mostruoso), il testo è sostenuto da una lucida premessa concettuale: in discussione è l’assenza di fondamento della realtà oggettiva,  la già trattata labilità della percezione e il modo con cui ci si pone in rapporto con il reale.

In maniera esplicita e con affermazioni disseminate ad arte lungo il racconto, il tema è proprio della limitatezza della percezione, che svela solo parte della realtà, e si insinua il dubbio circa la facoltà dell’uomo di demarcare con sicurezza il confine tra ciò che ha spessore visivo e ciò che non ne ha, tra ciò che ha un contenuto oggettivo e ciò che ha solo un contenuto immaginativo: l’esperienza sensibile è incompleta, imperfetta e fallace, borderline e alle sicurezze positive e scientifiche subentra l’orrore dell’impossibilità di tener fede agli schemi di riferimento consueti, che si credevano oggettivi e immutabili. E ciò a partire dai dati stessi delle vicende del quotidiano:

Seguitavo a pensare: il mio occhio è così debole e imperfetto che non riesce nemmeno a distinguere i corpi duri se sono trasparenti come il vetro! Basta che un vetro limpido, senza l’amalgama che lo rende specchio, si trovi davanti a me: non riuscirò a vederlo e mi ci getterò contro come l’uccello penetrato in una camera va a battere contro i vetri della finestra. Mille e mille altre cose l’ ingannano, lo disviano. Non c’è da stupirsi che non riesca a scorgere un corpo nuovo che possa essere traversato dalla luce”.

Una patologia della visione che è contemporaneamente metafora di patologia della mente e dello spirito. Questo mostro che non si vede ma che si intuisce dal fuori campo, sulla coda dell’occhio, è un mostro che può toccare le cose, prenderle e mutarle di posto: coglie ad esempio una rosa con mani invisibili:

….vidi, chiarissimamente, vicino a me, il gambo d’una di queste rose piegarsi come se una mano invisibile l’avesse torta e poi spezzarsi come se la medesima mano l’avesse colta. La rosa si innalzò seguendo la curva che avrebbe descritto un braccio portandola verso una bocca, e restò sospesa nell’aria limpida, da sé, immobile, spaventevole macchia rossa a tre passi dai miei occhi!”.

Si tratta di un passaggio centrale: infatti, nell’episodio viene messa in discussione non solo e non tanto la verità della percezione, quanto la sua completezza: l’oggetto del vedere è in questo caso l’azione, che il narratore segue nel suo compiersi senza riuscire a coglierne la sorgente: l’effetto si dà senza la causa, il limite è varcato, il sistema di controllo cognitivo (osservazione, valutazione, inferenza, decisione) è destrutturato nella sua logica consuetudinaria. Il risultato è anzitutto quello di uno spiazzamento gnoseologico, ma il testo suggerisce cifre interpretative più profonde. Dal punto di vista del narratore, e ancor più del lettore, le azioni, concepite come indizi, generano un sistema di attese, che conducono a ipotesi sulla struttura corporea dell’essere: se il mostro tocca gli oggetti, si può supporre che sia dotato di qualcosa che somiglia ad una mano: congetture non confermate dall’esperienza, da cui deriva tuttavia un’immagine mentale del mostro, ma – questo è il punto – frantumata e disgregata.

L’Horlà non si costituisce come una figura unitaria e riconoscibile nella sua totalità, ma come un insieme sconnesso di parti che si stringono attorno a na traccia dis-percepita; e alla scomposizione dell’unità del soggetto-invasore risponde la frantumazione e dispersione del soggetto psicologico.

In ultima analisi, se il presunto “potere di visione” del protagonista de L’Horlà non è di pertinenza dello psichiatra (o dello psicoanalista), forse ci troviamo di fronte a un  caso di sciamanesimo inconsapevole. Un dubbio esistenziale, ma anche filosofico, che proietta ancora oggi la sua inquietante ombra sul grande dilemma contemporaneo dell’infondatezza della percezione.