Ascensori sociali e crisi generazionali

Patrucco Giancarlodi Giancarlo Patrucco
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Leggevo l’altro giorno il bel pezzo di Bruno Soro, il “mio” economista di fiducia, sulle cause che hanno generato la dicotomia tra votanti della fascia giovanile (18-35) e votanti più anziani. Dicotomia che, tal quale, si è ripetuta nel referendum inglese sulla “brexit”.

Come riesce sempre a fare, Bruno ci fornisce una spiegazione semplice, senza troppi fronzoli statistici o politici. La riporto quasi integralmente, perché merita:
“Il conflitto generazionale ruota attorno ad una questione che sta assumendo una grande importanza: il blocco dell’ascensore sociale. Riflettevo proprio nei giorni scorsi con alcuni colleghi professori universitari sul fatto che la mia generazione, quella che va dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ai primi anni ‘70, ha dato la possibilità ai figli di “operai e casalinghe” di diplomarsi, laurearsi, trovare facilmente un’occupazione e di raggiungere le più alte sfere della cultura, della politica e del potere economico. Oggi, grazie alla globalizzazione, i giovani di famiglie che appartengono alle classi sociali medio-basse hanno maggiori occasioni per emergere, ma per cogliere tali occasioni debbono guardarsi attorno avendo come riferimento il mondo. E’ meglio? E’ peggio? Non saprei, di certo è meno rassicurante, e l’incertezza sul proprio futuro è la molla che spinge i giovani a ribellarsi e gli anziani a cercare di conservare ciò per cui hanno lottato a partire dal ‘68.”

Converrete con me che non fa una grinza ed è il punto di partenza migliore per cercar di allargare e circostanziare l’analisi. Io, però, non sono un economista. Mi perdonerete dunque – e mi perdonerà Bruno Soro – se ciò che dirò consisterà soltanto di alcune riflessioni tratte dalla mia esperienza.

Nel ventennio 70/80 del vecchio secolo, che è stato anche per me il periodo della  Vecchi giovanigioventù, l’ascensore sociale funzionava egregiamente. Bastava studiare, applicarsi con impegno, darsi una formazione seria e affrontare la selezione. I posti c’erano, nella Pubblica Amministrazione come nel privato, e i più preparati riuscivano sempre. Qui è là, si evidenziava qualche crisi industriale, qui e là si evidenziava qualche problema che investiva il commercio, ma erano crisi specifiche, limitate e circoscrivibili, che non investivano il sistema nel suo complesso.

Chi entrava poteva ragionevolmente aspettarsi stabilità, condizioni economiche superiori a quelle mai raggiunte in famiglia, considerazione sociale e prospettive di sviluppo. Ci fosse stata Standard & Poors, la valutazione sarebbe risultata senz’altro positiva.

Si poteva comperare la macchina, ottenere un mutuo da qualsiasi banca, mettere su casa e famiglia, aiutati spesso dal doppio reddito perché era il periodo in cui la questione femminile emergeva con insistenza e uno dei suoi cardini era quello dell’autonomia economica. Così, i più anziani potevano fare il mestiere più bello del mondo: quello dei nonni. Viziare i nipoti mentre i genitori erano al lavoro, ospitare la famigliola per il pranzo domenicale, accompagnarla nelle ferie al mare, sui lidi romagnoli o liguri.

Non sto dicendo che erano solo rose e fiori. Ci furono battaglie anche aspre per allargare il campo dei diritti, per contenere la reazione padronale, per far fronte agli andamenti ciclici dell’economia. Ma, nell’insieme, la finestra delle opportunità restava aperta, con ciò ingenerando fiducia e una ragionevole speranza. Chi comprava casa sapeva di acquisire un bene di valore, che sarebbe durato (e magari si sarebbe accresciuto) nel tempo. Chi riusciva a risparmiare qualcosa – e le formiche italiane erano un esercito – non giocava in borsa ma impegnava i propri risparmi in titoli di stato che al netto dell’inflazione garantivano comunque un discreto margine di profitto.

Ascensore socialeGuardiamo ad oggi. L’ascensore sociale si è arenato al piano terra, se non più giù. La mondializzazione dell’economia ha avuto effetti sconvolgenti sul lavoro e sui capitali. La fascia “alta” della popolazione – i ceti ricchi e i potentati forti – ha potuto giovarsene lucrando al ribasso delle condizioni di lavoro e dei redditi dei lavoratori. La crisi ha consentito loro di ottenere capitali di rischio a tassi bassissimi e manodopera a condizioni di sopravvivenza. I grandi imperi economico-finanziari hanno potuto fare il bello e il cattivo tempo, delocalizzando, chiudendo, utilizzando disinvoltamente gli ammortizzatori sociali e i benefit a cui la subalternità dei politici li ha condotti.

L’unica difesa degli altri, che una volta rappresentavano la classe media, è stata quella di farsi bastare le cose, di adoperare la politica della lesina, di fare la cresta su tutto, compresi i beni di prima necessità. Se l’ascensore non si muove, i rinnovi contrattuali sono bloccati e i redditi calano, almeno l’inflazione stia ferma.

Piccola soddisfazione, perché se i consumi si fermano si ferma pure lo sviluppo. Ma se l’alternativa è quella di uno sviluppo che ingrassa quelli che ti impoveriscono, che scelta c’è? Nessuna, nemmeno quella del mattone. Hai una casa? Sappi che, qualora dovessi venderla, il suo valore verrà decurtato del 25/30%. Ne hai una vuota? Tra IMU, spese condominiali e spese fisse per il riscaldamento, è come se fossi tu a pagare un affitto invece di riceverlo. Alessandria è costellata di cartelli “vendesi”, molti dei quali stanno lì a sbiadire sotto le intemperie.

Prospettive di sviluppo? Fiducia? Speranza? Se non ne hanno i giovani, neanche i più anziani ne intravedono all’orizzonte. La crisi generazionale ha un solo punto d’attacco: gli anziani, bene o male, hanno un reddito garantito: la pensione. I giovani no. Per il resto, le preoccupazioni si somigliano molto e il pessimismo è comune.

Di fronte a questo disastro, non bastano gli interventi fatti racimolando le briciole dei bilanci nazionali. Ci vogliono risorse imponenti per riavviare i processi di lavoro; risorse che possono essere attivate esclusivamente da grandi agglomerati sovranazionali, con l’apporto dei centri macro-economici mondiali. Chi pensa di cavarsela da solo, in questa depressione perfetta, commette un grave errore. Chi va in giro gridando “questo Paese è il nostro e ce lo gestiamo noi” non può essere altro che un ingenuo o un esaltato.
Non ne verremo mai fuori separati, perché oggi la linea di demarcazione è tra chi ha o non ha opportunità. E chi non ha opportunità arriva ormai a rappresentare i tre quarti del pianeta.