Disoccupazione «descritta» e «spiegata»

Soro Bruno 2di Bruno Soro.

“…il problema dei fisici è che non aspirano più a «spiegare» ma «descrivono» solamente”.

Michael Atiyah, in “Mente, materia, numero”,
il Sole 24 Ore, Domenica 30 giugno 2013.

Nell’articolo pubblicato su il Sole 24 Ore di domenica 30 giugno il ministro del lavoro Enrico Giovannini fornisce una descrizione efficace e chiara del problema della disoccupazione in Italia. Altrettanto chiara è l’illustrazione che egli fa delle misure di incentivazione contenute nel recente decreto governativo volto a contrastare la disoccupazione giovanile. “Il drammatico problema occupazionale che l’Italia si trova ad affrontare – scrive il ministro Giovannini – è reso evidente dai dati dell’Istat: abbiamo 3 milioni di disoccupati e 3 milioni di persone che non hanno un lavoro e non lo cercano, ma si dichiarano immediatamente disponibili a lavorare (i cosiddetti disoccupati scoraggiati). Di questi 6 milioni di persone, 1,6 milioni sono giovani tra i 18 e i 29 anni”.  Fin qui la pura e semplice «descrizione» del fenomeno. Proviamo a fare un passo nella direzione di una sua possibile «spiegazione».

La maggior parte dei commentatori ha sottolineato come gli incentivi alle imprese volti a favorire l’assunzione di nuovi lavoratori vadano nella giusta direzione, poiché andrebbero ad incidere sul costo del lavoro, specie su quello giovanile. Il ministro Giovannini assicura poi che “nei prossimi mesi si procederà alla definizione del secondo intervento a favore del lavoro e del capitale umano, nel quale si rafforzerà anche il sistema pubblico per favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e si valuterà come intervenire per ridurre il cuneo fiscale”. Ma siamo sicuri che le misure intraprese e quelle annunciate siano efficaci nel contrastare il fenomeno della disoccupazione? Da quanto precede sembrerebbe che il problema dell’occupazione, al quale quello della disoccupazione sarebbe inversamente collegato (se l’occupazione aumenta allora la disoccupazione si riduce), andrebbe ricondotto al fatto che, essendo il lavoro in Italia troppo costoso, una riduzione del suo costo comporterebbe un aumento della domanda di lavoro da parte delle imprese, aumento al quale farebbe seguito una riduzione dell’offerta di lavoro e conseguentemente una riduzione della disoccupazione. Ma le cose stanno davvero così?

Questo modo di intendere il funzionamento del “mercato del lavoro” sottende una visione del processo produttivo basata sul momento dello scambio: la causa della disoccupazione (la «spiegazione» del fenomeno) andrebbe ricercata nell’esistenza di un’eccedenza dell’offerta di lavoro rispetto alla domanda. Ora, poiché gli incentivi offerti alle imprese andrebbero ad abbattere il costo del lavoro, ci si attende che la domanda di lavoro possa aumentare per effetto di tali misure e ciò porterebbe con sé una diminuzione della disoccupazione. Ancorché maggioritaria nella corrente del «pensiero unico» dominante in economia, questo modo di intendere il fenomeno della disoccupazione costituisce una sola delle possibili spiegazioni, e forse nemmeno la più importante. Infatti, in una situazione di crisi economica come quella che stiamo attraversando, che perdura da oltre un quinquennio, la capacità produttiva delle imprese è fortemente sotto-utilizzata e le aspettative delle imprese stesse circa l’andamento della domanda per i loro prodotti sono improntate al pessimismo. In questo contesto molte imprese, specialmente quelle che producono (e vendono) beni destinati ai consumi delle famiglie, o chiudono i battenti, contribuendo in tal modo ad aggravare la situazione occupazionale e quella delle imprese ad esse collegate nella filiera produttiva; o cercano di delocalizzare gli stabilimenti in quei paesi (cito per tutti la Cina, il Brasile, ma anche alcuni paesi dell’Est europeo) nei quali il costo del lavoro è inferiore e, al tempo stesso, poiché sono più arretrati nella fase di sviluppo economico che stanno attraversando, la domanda per i loro prodotti è ancora sostenuta; oppure ristrutturano gli impianti acquistando nuovi macchinari che consentano loro di risparmiare lavoro. Nei primi due casi, la disoccupazione assume la forma cosiddetta della «disoccupazione involontaria», quella situazione ben descritta dal professor Luigi Pasinetti quando scrive che “ci sono macchine e ci sono lavoratori in grado di farle funzionare, ma il tutto rimane inattivo per insufficienza di domanda effettiva”.  Nel terzo caso, invece, la disoccupazione prende la forma della «disoccupazione tecnologica», vale a dire quella situazione che già negli anni ’30 del secolo scorso John Maynard Keynes aveva individuato e definito come una “malattia” dei paesi industrializzati, imputabile al fatto che “la disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera”.

Ora, nel caso della «disoccupazione involontaria» l’attenzione dei responsabili della politica economica andrebbe rivolta non solo (e non tanto) alla riduzione del costo del lavoro, quanto piuttosto al ripristino di quella capacità d’acquisto del ceto medio che è stata in gran parte erosa dalla «svalutazione interna» seguita all’introduzione dell’euro (con l’applicazione di un cambio per i redditi da lavoro dipendente pari a 1.936,27 lire per un euro, cambio svalutato a sole 1.000 lire per un euro per i prezzi delle merci). Ripristino della capacità d’acquisto che può avvenire unicamente attraverso una più equa distribuzione del reddito e della ricchezza, accentuando ad esempio la progressività del sistema impositivo, introducendo imposte sul patrimonio (sia mobiliare che immobiliare), e aumentando selettivamente le imposte sui consumi di lusso. Detto in altri termini, cercando di colpire chi ha accumulato ricchezze evadendo il fisco. Quanto alla «disoccupazione tecnologica» si può dimostrare che per contrastare questo fenomeno occorrerebbe che l’economia potesse crescere ad un ritmo ben lontano dallo zero virgola fatto registrare dall’economia italiana negli ultimi dieci anni. Se, come credo, il declino della nostra economia, le cui cause risalgono alle trasformazioni avvenute a partire dal primi anni ’70 del secolo scorso (ben prima, quindi, dell’introduzione dell’euro) e al degrado culturale che è in atto da almeno un paio di generazioni, è assai arduo attendersi che misure efficaci volte a ridurre la disuguaglianza possano essere adottate da un governo di larghe intese e, al tempo stesso, che provvedimenti volti a contrastare il declino economico vengano intrapresi da quello stesso sistema politico che è in gran parte responsabile di tale degrado.

Va da sé che se la «spiegazione» di una parte consistente di quei 6 milioni di lavoratori censiti dall’Istat e ai quali il Ministro Giovannini fa riferimento andasse ricercata proprio nelle due forme di disoccupazione alle quali si è fatto cenno, si può nutrire più di un dubbio  che gli incentivi contenuti nel provvedimento varato dal governo possano risultare efficaci. Duole peraltro riconoscere, per chiosare  il matematico Michael Atiyah, Medaglia Fields 1966, che anche gli economisti, al pari dei fisici paiono maggiormente orientati a «descrivere» i fenomeni economici che a «spiegarli».

bruno.soro@unige.it

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