E il cambiamento?

Patrucco Giancarlodi Giancarlo Patrucco.
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Scusate il ritardo. Mi ci sono voluti giorni per smaltire la botta che ho preso nelle ormai famigerate 72 ore folli del PD. Immagino di non essere stato l’unico ad averla presa. Quelle due letterine in un campo biancorossoverde rappresentavano tutto il passato di un’antica passione politica che aveva attraversato l’intera mia famiglia, dagli anni ’20 del PCI alla lotta di Liberazione, alla militanza sindacale e alla contesa fra i due blocchi nel periodo della guerra fredda. Mio nonno, i miei zii, mio padre. Sono ricordi che non si cancellano in fretta, che probabilmente non si cancelleranno mai.

Per vent’anni ho seguito le traversie del Partito Democratico, prima da vicino, poi da più lontano, criticando spesso la deriva che gli vedevo prendere, ma sempre sperando in cuor mio in una sua ripresa, in un colpo di coda, in una reazione che lo inducesse ad avvicinarsi di nuovo a quell’anima popolare, genuina, moralmente sofferta e persino bacchettona che aveva contraddistinto la mia gioventù.

Quelle 72 ore di follia, nelle quali il PD è annegato tra gli insulti della sua base e gli sberleffi dei suoi avversari, sono state un colpo al cuore. Sapevo che le cose andavano male, avevo visto i buchi sotto il rattoppo del premio di maggioranza, ero ben conscio dei contrasti interni, delle miserie di un partito ridotto a tribù, di un apparato che non riusciva a uscire dai propri logori giochi di potere, irretito e allo stesso tempo spaventato dal premio che aveva avuto in sorte, ma che non sapeva come gestire. Mi dicevo, però, che la via imboccata all’inizio, quella del cambiamento, rispondeva ad una necessità, ad un comune sentire dei suoi elettori, che non avrebbero mai potuto imputargli il fallimento se fosse restato lì, dritto e fermo, su quelle barricate.

Poi sono arrivati la diretta streaming, Marini, Prodi, il Colle, e non ci ho capito più. Davvero avevo votato un partito che indicava una strada nella quale la maggior parte dei suoi eletti non aveva creduto mai? Davvero avevo dato fiducia a un partito capace di “ammazzare” uno dei suoi padri fondatori? Davvero mi ero abbandonato nelle mani di gente che non si peritava di smentire nei fatti dell’urna la parola data appena poche ore prima?

Ci ho messo del tempo per sedimentare la rabbia, lo sconforto, la malinconia per tutto quello che avevo visto e che avete visto anche voi. Durante quel tempo, una parola sola ha continuato a martellarmi in testa: cambiamento. Già, il cambiamento tanto desiderato che fine farà?

Pare che questa parola sia all’improvviso sparita dal vocabolario della politica. Anche sui giornali, nelle televisioni e negli altri media, vanno per la maggiore ormai altre parole. Si fa molto spazio al “governo  delle larghe intese”, della “pacificazione nazionale”, della “emergenza”, facendo l’elenco dei provvedimenti economici e delle riforme costituzionali che, a dire di tutti, sono le vere, sostanziali e ineludibili “priorità” del Paese. Già, ma come riusciranno a realizzarle partiti che su questi argomenti sono tanto distanti tra loro? Formazioni politiche che la pensano in modo opposto  su tutto o quasi? Quali saranno gli accomodamenti, i compromessi a perdere, i passi indietro che faranno – che faremo – pur di poter dire che c’è un governo e che provvede?

Tanti, temo. Non vedo spazi per una vera lotta alla corruzione dilagante, non vedo spazi per una seria riforma della giustizia, non vedo spazi per una legge sui partiti che sia degna di questo nome, non vedo spazi per una credibile politica di ridistribuzione dei redditi, che dia ossigeno a chi ne ha bisogno e tosi chi ha vissuto di rendite. Pure bene.

Vedo spazi solo là dove il PD potrebbe arretrare, facendosi bastare qualche contentino oppure buttandosi sullo strapuntino della spesa pubblica. Ah, l’Europa. Gliele canteremo noi, all’Europa! Intanto, il PdL pressa da vicino. Via l’IMU e restituzione di quella del 2012. Presidenzialismo, magari alla francese. Nuove norme d’indirizzo per l’Agenzia delle Entrate. In una parola, i suoi punti programmatici, che fanno tanto “vecchio Berlusconi”. D’altronde, il PdL è un partito di destra e questo fa. Dopo aver sbracato, che gli vuoi dire?

Ma, in quella sbracatura, c’è qual cosina che non mi va né su né giù. Un rospetto, che appena ci penso mi ritorna in gola. In Parlamento c’erano due opzioni in gioco: quella delle larghe intese, per la nomina di un Presidente della Repubblica gradito anche al PdL, e quella che io definisco del cambiamento, per la nomina di un Presidente della Repubblica col sostegno del Movimento 5 Stelle. Quelli che, a un certo punto, si sono ritrovati sul Colle, non erano lì per prendere aria. Erano lì, ben sapendo che andavano a rappresentare la prima opzione, ben sapendo come la pensava Giorgio Napolitano e ben sapendo cosa ne sarebbe seguito se il Presidente avesse accettato il reincarico.

Tutto regolare, tutto costituzionalmente corretto. Ma, in questo modo, la seconda opzione, quella che mi ostino a chiamare del cambiamento, non ha mai avuto la possibilità di essere sottoposta al vaglio delle Camere. Ancor prima di un voto del Parlamento, è stata battuta dall’insipienza dei suoi proponenti. E questo rospo ancora mi rode dentro.