Saluti dalla Riviera dei Fiori [Il Flessibile]

di Dario B. Caruso

 

Serata finale del Festival di Sanremo 2022, l’unica che vedo quasi integralmente (cinque serate sarebbero oggettivamente troppe).

Andiamo per ordine.

Matteo Romano e Giusy Ferreri aprono in maniera adenoidica, il primo forte della giovane età e di un brano vocalmente difficile, la seconda con un vestito ti vedo non ti vedo, vorrei ma non posso.

Rkomi è come il titolo della sua canzone e come il tonno: insuperabile.

Iva Zanicchi è iconica e resiste al tempo che passa con tempra forzista.

Aka 7even sembra un Ed Sheeran mediterraneo, Dargen D’Amico sembra un Joe Cocker burino, entrambi appaiono così finché non cantano; li accomuna l’apprezzabile t-shirt in maglia di ferro.

La melodia italiana finalmente vive tra un fraseggio e un respiro con Massimo Ranieri.

Noemi ha la solita voce che graffia e canta una canzone originale, Fabrizio Moro ha la solita voce con la solita canzone già cantata gli anni scorsi.

Passa il tempo e ho l’impressione che Elisa divenga sempre meno leggiadra e sempre più pesante nella vocalità.

Irama vaga alla ricerca di una propria identità nel panorama musicale italiano; differentemente Michele Bravi la propria identità l’ha trovata ma con un’aria afflitta da toreador vincitore a metà.

Direttamente dal Paese delle Meraviglie, La Rappresentante di Lista si tuffa a piedi uniti nella tana del coniglio e ciao ciao, non si trova più.

Emma è elegante, femme fatale per outfit e interprete avvolgente di un brano impegnativo per estensione.

L’unica polifonia vocale è regalata da Mahmood e Blanco, nella loro modernità interpretano il belcanto italico con intensità.

Dai sobborghi metropolitani di un futuro prossimo ecco sul palco Highsnob e Hu, coppia romanticamente decadente che pratica un rap improbabile.

Si nota con chiarezza che Sangiovanni proviene dalla grande scuderia di Amici di Maria, ha giusta sfrontatezza e ottima preparazione.

Gianni Morandi canta con garbo un brano di Jovanotti, scritto però con mezzo secolo di ritardo.

Disco anni Ottanta per Ditonellapiaga e Rettore che eseguono un brano esteticamente sgradevole che ti fa battere il tempo con i piedi solo per la speranza che il tempo passi in fretta.

Yuman ha una voce scura come la sua pelle, pezzo interessante ma lui si preoccupa più della gestione delle mani piuttosto che di far comprendere il testo; è giovane e bravo, il ragazzo si farà.

Achille Lauro e Harlem Gospel Choir giocano esclusivamente sull’immagine, esteticamente ineccepibile. Di canzone c’è poco.

Ana Mena è giovane e carina e ha un cognome che la dice lunga; duecentomila ore è il titolo della sua canzone ma ne è anche la durata.

Tananai svolge il ruolo del Vasco Rossi o Rino Gaetano di turno; quelli che ci hanno provato in passato hanno bucato ma la canzone è divertente e il sesso occasionale per i ragazzi di questi anni è un vero miraggio.

Giovanni Truppi passerà alla storia come il cantante in canottiera ma a me è rimasto impresso per il naso significativo, come il mio (per tacere della canappia di Amadeus) solamente che il suo svolta a sinistra. Perlomeno dà un senso alla canzone.

Le Vibrazioni continuano nel loro ruolo di gruppo rock ma non troppo, personalmente li trovo molto eleganti ma poco sfacciati per entrare in classifica.

Si conclude la kermesse annuale mai così seguita in termini di share e di visibilità.

Mi chiedo quale sia il motivo per cui anche l’Eurofestival riesca a durare la metà.

Ad ogni buon conto io spero che vinca.
E voi?