Il gancio di Barabba [Lettera 32]

di Beppe Giuliano

 

Cifra tonda. Capitolo 16

 

Abbiamo raccontato La volta che vinse il Feyenoord a maggio del 1970, stavolta sulla nostra macchina del tempo non tocchiamo l’anno della “cifra tonda” e ci limitiamo a spostarci di una quindicina di giorni, un po’ come se fossimo pure coi ricordi costretti a rimanere in regione.

Attraversiamo una settimana di scioperi che blocca l’Italia, perfino i giornali non escono e alla ripresa Arrigo Levi intervista il ministro del lavoro Donat-Cattin raccogliendone i “severi giudizi”: C’è nelle imprese uno stato di malessere: l’avanguardia sindacale fa concorrenza ai contestatori. Senza sviluppo del reddito manca la base per le riforme (sanità, casa, trasporti).

Benvenuti negli anni settanta. Dureranno a lungo.

Sulla stessa prima pagina della ‘Stampa’ la fotonotizia dell’arresto per droga di Walter Chiari. Chiari è uno dei comici di maggior successo, e più bravi, del nostro spettacolo. La vicenda giudiziaria insieme a lui travolge Lelio Luttazzi, notissimo presentatore della ‘Hit parade’, molti ancora ricordano la sua canzone sul “can de Trieste” che “ghe piase el vin”.

Lo strillo dello sport parla di italiani impegnati nel mondiale: l’altro triestino Nino Benvenuti difende il suo titolo dei pesi medi. I calciatori sono in ritiro per il mondiale del Messico e sta per scoppiare la grana del buon Lodetti, escluso quando per sostituire l’infortunato Anastasi ne convochiamo due (Boninsegna e Prati), genialata che costa il posto a “Basléta”, che probabilmente paga pure il suo essere scudiero dell’abatino Rivera. Il campione alessandrino, non sorprendentemente, non è che si spenda in difesa del suo fido compagno di squadra, infatti il rapporto tra loro si incrina.

E i cestisti italiani stanno giocando il mondiale di Lubiana. Dove succede qualcosa di storico.

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Per la prima volta il mondiale del basket arriva in Europa, dopo cinque edizioni sudamericane. Significativamente in Jugoslavia, che sta diventando una potenza del gioco, e infatti vince quell’edizione, trascinata dal “vescovo” Krešo Ćosić.

Noi dopo la lunga era di coach Nello Paratore, famoso per aver vinto gli europei del ‘49 con l’Egitto (era nato al Cairo) ci siamo affidati a un gentiluomo della panchina, Giancarlo Primo. 

Esordisce male all’europeo casalingo di Napoli e Caserta del 1969 dove finiamo solo sesti, rinnova la squadra e si affida con il suo basket prudente (lo sfottono dicendo che è Giancarlo “Primo non perdere”), alla generazione che sarà la prima vincente del nostro basket, con i varesini Flaborea, Bisson, Rusconi oltre al giovane campione Dino Meneghin, le scarpette rosse Masini e Bariviera, completati dal canturino Recalcati e dal virtussino Massimo Cosmelli che dopo il torneo andrà a raggiungere De Rossi e Marino Zanatta a Milano, però nella seconda squadra meneghina.

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Sono gli anni d’oro, infatti, di un club sorto in un oratorio, quello di San Gioachimo, zona Stazione Centrale, intitolato allo sposo di Sant’Anna, i genitori di Maria, insomma il nonno di Gesù. La squadra si identifica con il nome del suo sponsor, i grandi magazzini All’Onestà di proprietà del cavalier Milanaccio, mecenate, fondatore del club, e nel 1970 ha raggiunto il miglior risultato di sempre, il terzo posto in serie A dietro le due grandi, la Ignis di Varese e i “cugini” del Simmenthal Olimpia Milano.

Come detto dà diversi giocatori alla nazionale, e nell’azione decisiva della partita contro gli Usa sono sul parquet infatti cinque “milanesi” provenienti proprio dalle due squadre.

Gli americani per le manifestazioni internazionali all’epoca mettevano insieme squadre di universitari, a volte molto forti come all’Olimpiade di Roma del 1960, altre volte discretamente scadenti. Quella contro cui giochiamo a Lubiana non è neanche delle più scarse.

C’è  il “rosso” Bill Walton, grande centro ragazzino (non ha ancora 18 anni) che sta per essere ingaggiato al posto di Lew Alcindor poi Kareem Abdul-Jabbar nell’università UCLA. Walton è un raro esempio di giocatore di pallacanestro che si riduce la statura, non vuole infatti essere misurato 7 piedi, cioè due metri e 13, nonostante li sia. D’altronde è un tipo originale, perfetta espressione della sua epoca: per protestare ha scritto una lettera al presidente Nixon che legge quando viene arrestato dopo una manifestazione. È un fan accanito del gruppo dei Grateful Dead, da noi non così noti ma negli Stati Uniti oggetto di un vero culto, con i fedelissimi Deadhead cui lui appartiene: è Grateful Red, o Big Red Deadhead, è nella Hall-of-Honor della band, quando faranno gli ultimi concerti di definitivo addio spiccherà tra il pubblico, il più alto di tutti, naturalmente sempre con le magliette tye-dye che tutti i fan indossano. Ha un po’ troppi infortuni in carriera ma rimane uno dei grandi della pallacanestro.

C’è il futuro israeliano Tal Brody che diventerà leggenda nel Maccabi Tel Aviv, con ripetuti duelli nelle competizioni di club con i nostri degli anni settanta, specie i varesini. Brody, si dice reclutato personalmente per giocare in Israele dal generale Moshe Dayan, sceglierà dopo questo mondiale di giocare con la nazionale israeliana, e accenderà la fiaccola alla Maccabiade del ‘73, dedicata alla memoria delle vittime del terrore di Monaco 1972.

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Ancora, veste per l’unica volta a quei mondiali la maglia della nazionale statunitense un mitico mestierante della nostra pallacanestro come Joe Isaac, una carriera appunto con il giallorosso All’Onestà di Milano.

Racconta l’esperienza in un’intervista a Super Basket: «La convocazione per i Mondiali in Jugoslavia arrivò all’ultimo momento dagli Stati Uniti; io ero in Italia, dove avevo appena concluso il mio quinto campionato di serie A con la squadra della All’Onestà Milano; tra l’altro, era stata un’ottima stagione, eravamo giunti terzi alle spalle dei nostri vicini della Simmenthal e dell’Ignis Varese, che per il secondo anno consecutivo aveva vinto lo scudetto. Mi dissero praticamente di non muovermi, la comitiva sarebbe arrivata in Europa poco prima dell’inizio di quel Mondiale, e io l’avrei raggiunta. Ci siamo radunati in Germania, a Francoforte: pochi giorni di allenamento, e poi partenza per Sarajevo dove si disputava il nostro girone di qualificazione».

«Certo, non fu una edizione esaltante per la nostra Nazionale, il quinto posto non era proprio l’obiettivo finale. C’è da dire, però, che eravamo una squadra un po’ improvvisata, praticamente non ci conoscevamo; io poi, che da anni avevo lasciato gli USA, conoscevo soltanto Jim Williams, e da avversario, perché si trovava come me in Italia, a Napoli. Eppure, c’erano buoni giocatori, come le guardie Washington e Brody; c’erano Hillman e Silliman, che subito dopo sono andati a giocare in NBA. E c’era anche Bill Walton, sapete di chi parlo, no? Era ancora un ragazzino, veniva dalla California, e al rientro fu ingaggiato dal college UCLA, dove prese il posto di Kareem Abdul Jabbar, con cui tra l’altro avevo fatto dei camp insieme, a New York: non sto a ricordarvi la grande carriera che entrambi hanno avuto in NBA. Insomma, buoni giocatori, ma non amalgamati tra loro; l’allenatore Hal Fischer, che personalmente ho incontrato solo in quella occasione, non poteva fare miracoli col poco tempo avuto a disposizione».

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Giochiamo contro gli USA come penultimo incontro della fase finale a sette, dove abbiamo perso di soli tre punti contro la nostra bête noire Jugoslavia e di dieci dal Brasile, allora molto forte, e battuto Cecoslovacchia e Uruguay.

La partita va proprio come vuole il nostro coach “Primo non perdere”. Difesa e punteggio basso. Arriviamo al 64 pari che sul cronometro manca meno di un minuto, e ci guadagniamo il possesso offensivo.

Ora, se fate rivedere quell’azione a un coach della pallacanestro probabilmente si strapperà i capelli. Scambiamo la palla più volte, come facessimo melina. Da Giomo a Masini, che pure sarebbe il pivot, a Cosmelli che prova un’entrata almeno estemporanea, e salva la palla con un balzo miracoloso Marino Zanatta, il suo rilancio torna a noi (gli dei della pallacanestro ci sono evidentemente favorevoli), ricomincia una specie di tiki-taka tra Giomo Masini e Cosmelli che scarica, di nuovo in modo estemporaneo, a Bariviera fino a quel momento dimenticato in post basso.

Renzo Bariviera, trevigiano ventunenne, da un anno in forza all’Olimpia Milano, è già uno dei nostri cestisti più forti, anche se un quotidiano nella cronaca dell’incontro lo definisce come “fratello del ciclista Vendramino” (che è stato un buon professionista, nel carnet una Milano-Vignola, corsa velocissima, e sei tappe del Giro).

Barabba, come lo chiamano, ha una di quelle tipiche intuizioni del momento e ricorre a un colpo che ha nel repertorio.

Quel che segue è un piccolo grande momento di storia per gli azzurri del basket: il gancio di “Barabba” Bariviera fa un perfetto ciuff e sigilla il finale della nostra vittoria, la prima in assoluto contro gli USA. 66 a 64.

 

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Le storie di ‘Cifra tonda’:

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La partita del secolo

Il lancio che uccise

Il primo e l’ultimo titolo di Kobe

A fari spenti nella notte

Il grande balzo in alto del fantasma Ni

Tokyo e le Olimpiadi soppresse

Eravamo in centomila allo stadio quel dì

Un uomo del sud, senza pista

La vittoria di Gianni Vedremo

 Zero match point sulla sacra erba

Un altro oro per la regina dei boschi

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Ginettaccio, vent’anni dopo

La volta che vinse il Feyenoord