I duellanti [Lettera 32]

di Beppe Giuliano

 

Cifra tonda. Premessa

Abbiamo dunque iniziato il 2020, un anno con lo zero, ed essendo bisestile anche olimpico.

Ne approfittiamo per raccontare, nei prossimi dodici mesi, avvenimenti sportivi di altri anni che terminavano con la “cifra tonda”.

Viaggiamo quindi tra diverse Olimpiadi, alcune pure non disputate o boicottate, o nell’edizione romana, la più romantica dei Giochi, ma anche con Coppi-e-Bartali, col Feyenoord, con Trinca e Cruciani, con Francesca Schiavone… E tanti altri racconti. Tutti accomunati dal numero 0 finale dell’anno con la “cifra tonda” in cui le storie, queste storie, sono accadute.

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Cifra tonda. Capitolo 1

I duellanti

Quando iniziava il ventesimo secolo a Buckingham Palace risiedeva ancora Vittoria, regina dal 1837. Nicola II era diventato zar di Russia da poco più di cinque anni, sua figlia la granduchessa Anastasia sarebbe nata solo l’anno successivo (e in qualche modo sopravviverà al destino dei Romanov nelle tante donne che diranno di essere lei).

Trento e Trieste, per la cui indipendenza combatteremo pochi anni dopo, facevano ancora parte dell’impero austro-ungarico su cui regnava da oltre mezzo secolo Francesco Giuseppe. Umberto I era il re d’Italia e stava per incontrare il suo destino a Monza, per mano dell’anarchico Bresci, al termine di un concorso ginnico cui aveva assistito. La maggior parte dei 32 milioni circa di italiani era analfabeta, il 51 per cento degli uomini e il 60 per cento delle donne.

Nel 1900 i pochi che si informavano degli avvenimenti sportivi ne leggevano sulla Gazzetta dello Sport, nata nel 1896. Uno dei due fondatori si chiamava Eliso Rivera ed era alessandrino (di Masio, come l’attuale proprietario del giornale). Fu anche uno dei padri fondatori del ciclismo in Italia e qui, infatti eravamo la “città delle biciclette”. Rivera, che si firmava E.d.R. Eliseo delle Roncaglie (la sua borgata natale), si appassionò dopo avere visto il velocipede che Carlo Michel aveva acquistato a una delle Esposizioni Universali di Parigi, quella del 1867.

Lo sport da noi era un diletto destinato a pochissimi. E, per quei pochissimi, “era sinonimo di ginnastica, cioè purezza, perfezione estetica, equilibrio”, scrivono Dario Ricci e Daniele Nardi in ‘La migliore gioventù’.

Ci appassionavamo per il ciclismo, appunto, oltre che per l’equitazione e la scherma.

Meno per il calcio. Nella primavera del 1900 al terzo campionato parteciparono in tutto cinque squadre. Lo rivinse il Genoa. Il suo capitano, il dottor Spensley (esercitava la professione di medico fra i molti connazionali residenti in Liguria) giocó la finale in porta, come già aveva fatto nella prima edizione del 1898. L’anno dopo aveva invece preferito schierarsi in difesa. Anche questo la dice lunga sul livello del torneo allora.

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Dal 14 maggio al 28 ottobre del 1900 a Parigi si svolse la II Olimpiade moderna. Le gare erano diluite nell’ambito di un’altra Esposizione Universale, certi atleti nemmeno si resero conto di partecipare alla manifestazione, che fu comunque “mediocre e senza prestigio” come riconobbe lo stesso barone De Coubertin, che si stupì della stessa sopravvivenza di quei Giochi che aveva così fortemente voluto ristabilire dopo quindici secoli.

Per anni si discusse se talune gare di quella edizione fossero o meno parte delle Olimpiadi: ancora adesso il Coni rivendica, contro il parere del Cio, la medaglia vinta nella gara a punti del ciclismo da Brusoni.

Qualche dubbio rimase anche sulle gare della scherma riservate ai maestri di sala, in effetti professionisti, ma ci soccorse lo stesso barone De Coubertin che riconobbe loro la possibilità di partecipare, essendo la scherma considerata più un’arte che uno sport.

Noi vincemmo nella sciabola dei maestri con Antonio Conte in una finale tutta italiana. O almeno così credemmo all’epoca.

D’altronde la scherma era, e resta, una delle specialità olimpiche in cui maggiormente eccelliamo, e giusto venti anni dopo ai Giochi di Anversa del 1920 assistemmo agli straordinari trionfi di Nedo Nadi. Il livornese vinse infatti cinque medaglie d’oro.

Oltre che un’atleta eccezionale era un uomo di straordinario coraggio come aveva dimostrato durante la Grande Guerra, combattuta nel reggimento “Cavalleggeri di Alessandria”, sempre comunque mantenendo la propria umanità. Dopo avere guidato un assalto riconobbe tra i nemici austriaci catturati uno schermidore che aveva diverse volte affrontato e lo abbracciò, cosa che gli valse una reprimenda del suo comandante, a cui ribadì di essere sì un soldato ma anche un cristiano.

Uomo bellissimo, amò teneramente la sua compagna Roma Ferralasco, insegnante di ginnastica genovese, nelle cui braccia morì appena quarantaquattrenne, la fine destinata agli eroi, come noto tutti giovani e belli.

Nedo Nadi ha un sottile, ma curioso legame con i suoi colleghi di quella Olimpiade del 1900.

Come detto a Parigi la finale fu tutta “nostra”, e Antonio Conte battè un altro livornese, il maestro Santelli. Nome di battesimo, teniamolo a mente, Italo.

Santelli si era già trasferito a insegnare la sciabola a Budapest, altro paese di grande tradizione in questo sport, e alle Olimpiadi del 1924 era infatti uno degli allenatori degli ungheresi. Venne coinvolto in uno scontro tra le nazionali che finì con i nostri che abbandonavano le gare cantando ‘Giovinezza’.

Il suo ruolo a favore dei magiari fu stigmatizzato in modo veemente, il Coni chiese che la sua medaglia di Parigi fosse considerata vinta dall’Ungheria non dall’Italia e ancora oggi infatti talvolta non è contata nel nostro medagliere.

Particolarmente aggressiva nella campagna mediatica fu la Gazzetta dello Sport con il focoso Adolfo Cotronei che etichettò Santelli “traditore della patria”: “Italo? Ungaro piuttosto!” scrisse, in una polemica durata finché i due non si sfidarono a duello.

Cotronei, napoletano, prima al CorSera poi alla rosea di cui fu vice-direttore, non era nuovo ai duelli. Aveva infatti sfidato addirittura Nedo Nadi e, si dice, lo salvò dall’affondo del fioretto del campione solo un bottone delle mutande (un’altra versione più pudica parla di bretelle).

Contro il “traditore” Santelli andò in modo anche più bizzarro. Italo, pardon Ungaro, ormai sessantenne delegò alla sfida, come consentiva il codice cavalleresco, il proprio figlio Giorgio, lui pure olimpionico ad Anversa 1920 nella sciabola a squadre. Il duello si svolse su una barca tra Trieste e Fiume e Cotronei ne uscì con una lesione del nervo ottico che gli permetterà di indossare il monocolo, cosa che aveva sempre desiderato.