Vinoir di Giorgio Bona [ALlibri]

A cura di Angelo Marenzana

 

 

Secondo appuntamento estivo con le Edizioni della Goccia di Davide Indalezio con Giorgio Bona e il suo Vinoir. Giorgio Bona è autore già noto nell’alessandrino. Vive a Frascaro, tra Alessandria e Acqui Terme, e suoi testi sono già stati pubblicati in numerose riviste e antologie, come Bad Prisma (Mondadori) e Bersagli innocenti (Flaccovio). Tra i suoi romanzi, Ciao Trozkji (Besa, 2003, 2010, 2017) e Sangue di tutti noi (Scritturapura, 2012, 2013) sull’omicidio del dissidente comunista Mario Acquaviva.

 In Vinoir, l’autore racconta di due omicidi avvenuti a breve distanza l’uno dall’altro e capaci di scuotere l’abituale sonnolenza delle colline del Monferrato. Protagonisti, un commissario di Polizia prossimo alla pensione e un maresciallo dei Carabinieri che si trovano a collaborare, loro malgrado, per sciogliere il mistero che circonda i due crimini. Le morti appaiono subito collegate alla viticoltura e al commercio del vino, le principali attività della zona, e con l’avvio delle indagini si porteranno alla luce vecchi rancori e complicati intrecci legati a traffici non sempre leciti.

Dalla trama emerge l’estrema riservatezza delle genti di campagna, che qualcuno potrebbe definire vera e propria omertà, condizione che ostacola e ritarda una soluzione finale che lascia comunque l’amaro in bocca.

 

 

 Vinoir

di Giorgio Bona

 

Uno

 

Mond Quader

 

La donna lo colse a dormire nella stoppia con gli abiti bagnati dalla rusà del primo mattino.

«Tirti sü, vagabond. Via! Ciapa al larg!»

Lui la guardò e il suo sguardo era odio misto a paura. Gli occhi del pazzo, iniettati di sangue, accecati dall’ira. Chi osava, chi osava rivolgersi a lui con quel tono?

«Ten a ment, attenta a te megera,» disse alzandosi e appena vide due figure maschili correre nella sua direzione, si affrettò ad alzarsi, imprecando a denti stretti. «Vi prenda lo scolo, male­detti!» Urlò così mentre i due uomini si avvicinavano. Dovevano essere i parenti della donna e stavano correndo in suo aiuto.

Sull’altro versante della collina si fermò, ansimando, si voltò. Non lo avevano seguito. Il sudore azzannava la sua carne, corrodeva le sue vesti logore. Aveva la pelle unta, era sporco, le cimici e i pidocchi erano padroni del suo corpo. Si muoveva con impacciata ferocia su quelle terre arse, nel chiarore del primo mattino.

Un nido di calabroni fece sentire il suo ronzio sulla porta della catapecchia diroccata, dove lui stava entrando nella penombra. Calò le braghe sulle ginocchia e via con i suoi bisogni. Neppure un po’ di tranquillità in quei momenti. Rimase con le gambe divaricate, osservando l’espulsione del suo corpo con prolungato piacere. Riabbottonò i calzoni e camminò, costeggiando il fianco della catapecchia per entrare dal retro.

Si passò con continua insistenza la lingua sui denti anneriti dalle carie come se stesse masticando qualcosa. Erano soltanto tic nervosi, ansie, paure. In realtà, la fam l’è ‘na bestia grama.

 

In piazza oggi è giorno di mercato. I paisan sono tutti a curiosare, a comprare, bene, bene, guardate, preparate le palanche, i danè. Forza! Qui da questa parte, come sta, madamin? Va bene, va bene, valutiamo ogni offerta, fate le vostre proposte. Inchini, salamelecchi, sorrisi. La voce dei piazzisti echeggiava, risvegliando l’intimità raccolta del paese, un coro di grida strampalate, festanti.

Quando il Putaron fece la sua comparsa sbucando dal nulla, trasandato, le voci si zittirono improvvisamente e si concentrarono su quello scherzo della natura che passava indifferente. Stevulen de la Merica, la sigala tra le labbra, cercò con lo sguardo il maresciallo che ogni giorno di mercato scendeva in piazza a controllare la situazione.

Il Putaron avanzava deciso verso Stevulen. Lo considerava un ladro che gli aveva sottratto la proprietà e l’aveva acquistata all’asta per pochi soldi dopo che la banca l’aveva messa sotto sequestro.

Meu il Putaron aveva visto, con la malizia dei paisan, che dietro tutto questo qualcuno aveva tramato. La banca non aveva concesso prestiti per alcuni investimenti andati male e lui si era ritrovato in braghe di tela. Non restava che ipotecare la casa e le vigne che la sua famiglia aveva comprato nel tempo dopo vite grame, vite di stronzi duri da cagare, per mettere un po’ di fieno in cascina. Non a caso Stevulen era sempre presente nelle disgrazie degli altri e aveva acquistato diverse proprietà nella zona, creando un impero.

Lui però non si era rassegnato, Ogni volta che lo vedeva sentiva il sangue montargli in testa. Quando gli fu davanti, pronunciò poche frasi incomprensibili, a denti stretti, con il tono cantilenante di queste colline, incurante degli sguardi intorno.

«Cosa vuoi, Meu? Non vedi che ho da fare?»

Il Putaron espulse un enorme scracio verde e catarroso che risuonò sulla ghiaia.

«Sei un ladro legalizzato, Stevu. Non vedo l’ora che tu vada a raspare la polvere con quel tuo culo immerdato».

«Attento a come parli, brutto ubriacone. Sono una persona rispettabile e vengo da una famiglia onorata».

«Me ne sbatto i coglioni del tuo onore! Tu mi hai rapinato e per me sei un maledetto ladro!»

Stevulen si guardò intorno per cercare un po’ di aiuto. Nessuno banfava. Sapeva chiaramente che tutti la pensavano come il Meu. Vide gli sguardi intorno che non esprimevano molta simpatia nei suoi confronti. Sentiva un profondo disagio. Batté le scarpe sul selciato come se volesse togliersi la nitta dal tacco. Quando tornò a sollevare lo sguardo sul Putaron espresse un sorriso un po’ ciula che era l’espressione del suo disagio.

Come osava, come osava quel rifiuto umano aggredirlo così? Lui che viene dalla gavetta. Tirato su a figassa e torchione, che non sapeva metter insieme il pranzo con la cena, che cagava nelle stoppie quando la gente rispettabile aveva un bagno e un lavabo per strugiarsi, mentre so pa’ giuntava la pellaccia sul Don con la compagnia degli alpini della Granda. Aveva lavorato duro mentre gli altri bambini giocavano a guardia e ladri, a girotondo e poi rubavano il muscaten nelle vigne di quel grande industriale che faceva il sindaco e si era arricchito alle spalle di tanti poveri cristi.

«Se non ti dai una calmata ti ingavardonano un’altra volta».

A quel punto il Meu lo prese per il collo e lo strinse in una morsa carica di rabbia. Stevulen tossì forte, deglutendo la saliva, poi sputò, prima di guardarlo fisso negli occhi.

«Cosa hai intenzione di fare? Uccidermi? Non sono stato io a toglierti la proprietà. È stata la banca. Io l’ho soltanto comprata all’asta».

«Ora tu vieni con me!»

«Non se ne parla neppure. Se hai brutte intenzioni mettile in pratica qui, dove tutti ti possono vedere. Io non mi muovo».

Anche il Meu però era uno che aveva il sangue caldo già dalla fonte. Quando era avvenuto l’abbandono del padre per fuggire con una che faceva la vita – il Signore accompagni quel vecchio balengo – aveva cominciato a conoscere le schioppate dure dell’esistenza di queste colline e non si spaventava più davanti a nulla.

Il maresciallo intervenne a sedare la rissa che si stava accendendo. Nessuno garantì di aver visto la scena per testimoniare. Fu il maresciallo a colpirlo con forza per sottrargli la presa. La gola del povero Stevulen sembrava quella di un cappone pronto al sacrificio prima di essere taccato a un gancio.

Il Meu barcollò dopo la botta e, prima che potesse rendersene conto, fu caricato sulla macchina dalla pattuglia e condotto al comando.

Perdeva sangue da un orecchio. Con la mano faceva pressione per lenire il dolore e in cuor suo imprecava contro le autorità, in quanto si considerava vittima di un sopruso, di un’angheria, allora perché la giustizia è sempre al servizio dei più potenti?

Il fatto fu tema di discussione di tutto il paese. Questa terra così dura, rancorosa, di gente che ha piegato la schiena al sole, scarpinando filari su filari, mangiando pane e seiras, pane e toma.

La casa del Putaron era da sempre chiamata Bric du diau e ‘l diau era lo stradinom del suo nonno paterno, che aveva conteso centimetri di quella terra con lotte furibonde e bicerin mal digeriti.

 

Ciò che avvenne il giorno seguente balzò all’attenzione della cronaca. Il TG regionale aveva riservato un ampio servizio a ciò che era accaduto in quell’angolo di Piemonte, tra queste colline che si perdono a vista d’occhio, raccolte nelle chiacchiere dei paisan che si rivedono a distanza di poco tempo sulla scena della tragedia.

Alle giornate di calura estiva si erano sostituiti improvvisi temporali che vagavano da una collina all’altra, con dei fulmini quasi a livello del suolo seguiti da tuoni lunghissimi e cupi, con pericolosi smottamenti di terra e boati simili a colpi di cannone. Poi, passata la pioggia, la stagione aveva aperto la sua brezza di inizio autunno.

Tutto ciò precede il fatto. Gino Borloni aveva negli occhi la luce del tramonto a ponente, la terra farinosa e morbida che aderiva ai gambali e il respiro affannoso del setter inglese che gattonava, fiutando qualcosa. Stava risalendo la collina con la sua doppietta a tracolla attento ai movimenti del suo cane da fiuto che non sbagliava quasi mai. Era il miglior cane da fiuto di tutta la valle e lui se ne vantava.

Aveva scelto il percorso con grande attenzione. Tra una settimana sarebbe incominciata la caccia e lui voleva anticipare la stagione dopo aver pasturato il terreno a lungo e dopo aver rilevato la presenza di due fagiane femmine e un maschio. Stava risalendo il crinale con la sua doppietta a tracolla. Si era mosso con la massima cautela, cercando di tenersi fuori mano dal guardacaccia che ben conosceva le sue abitudini di bracconiere.

Si trovava su una strada secondaria che viaggiava parallelamente alla provinciale. Sulla sinistra e sulla destra c’erano distese di vigne di moscato e di brachetto. La vendemmia era appena terminata e qualche grappolo lasciato indietro era rimasto come nettare di vespe e calabroni. Osservò quel colore dorato, immaginò quegli acini piccoli sciogliersi in bocca con il loro sapore di miele

Dalla parte più alta della collina, verso sud-est, si vedeva Acqui Terme. Una nebbiolina leggera, sottile, traspirava come di solito accade nell’autunno di queste parti, malinconico e triste.

Giocando a nascondino, quindi, tra due filari di moscato, era certo di non essere troppo esposto. Davanti a lui, in cima, c’era un piccolo boschetto, un fazzoletto di terra incolto che era rimasto proprietà del Putaron.

Emise un fischio prolungato per richiamare il cane, un fischio simile a un sibilo. Il cane non rispose al segnale accorrendo come faceva di solito.

Strano, pensò. Ha sempre obbedito. Avrà fiutato qualcosa.

In quella brevissima attesa concentrò tutta l’attenzione sulla pallida luce che filtrava tra i filari, in un silenzio palpitante, interrotto soltanto a tratti dal passaggio del cane che batteva a largo raggio la zona circoscritta.

Teneva pronto il fucile con il colpo in canna, aspettando che il cane si piazzasse in ferma. Alla fine quel muoversi in cerchi concentrici che riportavano nello stesso punto cominciava a dargli sui nervi.

«Cosa stai facendo, bestiaccia?» imprecò con un filo di voce come se avesse paura di turbare quell’incontaminato silenzio.

Il cane sembrò averlo capito perché cominciò a scodinzolare, correndogli incontro.

Da parecchi anni Borloni faceva il bracconiere. Prima che iniziasse la caccia non c’era più selvaggina in quella zona. Lui arrivava sempre prima.

I coltivatori erano contenti. Non vedevano di buon occhio i cacciatori sulla loro terra. Erano devastanti. E dal momento che la caccia coincideva sempre con il periodo della vendemmia si arrabbiavano e imprecavano contro le autorità quando trovavano le vigne saccheggiate e devastate da quei cagamaretti di città.

Ci tenevano al loro lavoro, i paisan. In quella zona il vino cominciava a dare buoni risultati, perché avevano con il tempo acquisito una buona reputazione e la sua quotazione era notevolmente salita.

La sera prima c’era stata la festa della vendemmia, che si teneva come ogni anno l’ultimo sabato di settembre. Il ballo in piazza e le lingue sciolte in discussioni senza senso con quei comportamenti da filossera stracca. L’intera comunità restava in piedi fino a notte fonda e al mattino neppure le cannonate bastavano a levarli dal letto. Si alzavano alla bell’ora con la testa tra le mani e i piedi struscianti fino alla chiesa per la messa delle undici a invocare una sacrosanta benedizione.

Così, nel momento che infilò i gambali nella bruma che precedeva l’alba di quella particolare domenica mattina, Borloni sapeva che le possibilità di incontrare qualcuno era ridotta al lumicino. Aveva fatto una veloce comparsa alla festa la sera prima, aveva bevuto un bicchiere cercando di farsi notare il più possibile e poi si era precipitato a casa per alzarsi fresco e agile alle quattro in punto per la sua festa privata: il bracconaggio.

Quella mattina, convinto di essere solo, si accorse che qualcosa turbava la quiete del luogo e non era dovuta soltanto alla sua presenza. Il cane abbaiò e incominciò a ringhiare. Silvi aveva fiutato la presenza di qualcuno nel boschetto dove si trovava la baracca del Putaron.

«Sei già in giro a quest’ora?»

Nessuna risposta. La cagna stava in mezzo a loro e continuava a ringhiare. Stevulen de la Merica proseguì con una faccia scubia da far paura e passò accanto a Gino senza salutare.

Si può dire che tutto ebbe inizio così.