Dulce et decorum est (4) [Lettera 32]

di Beppe Giuliano

Tony Wilding, il primo e unico neozelandese a vincere Wimbledon, lo fece quattro volte di fila tra il 1910 e il 1913. Allora il campione uscente attendeva in finale uno sfidante emerso dal torneo perciò la cosa era in qualche modo più facile. Nel ‘14 il giocatore, che era uno educato al Trinity College di Cambridge, cioè il top del top, e aveva tra l’altro una grande passione per la motocicletta con cui raggiungeva i vari tornei in giro per l’Europa, perse dall’australiano Norman Brookes (che era anche il suo compagno di squadra quando vinse la Coppa Davis l’Australasia, la squadra che riuniva australiani e neozelandesi).

Nello stesso 1914 Wilding si arruolò, venne promosso capitano il 2 maggio 1915, l’8 scrisse in una lettera: “per la prima volta in sette mesi e mezzo ho una missione che dovrebbe finire in uno scontro armato con me e tutto il mio reparto spazzati via all’inferno (non è letterale, ma rende l’idea del sui being blown to hell)”. Morì il giorno successivo, a Neuve-Chapelle nell’Alta Francia, ucciso dall’esplosione di una granata.

Si trovano storie di atleti di tutto il mondo tra i caduti della Grande Guerra.

Caddero ben cinque “Springboks” come sono chiamati i rugbisti del Sud Africa, e ben tredici “All Blacks” neozelandesi.

André Corvington, lui pure caduto in battaglia in Francia, era uno schermidore haitiano.

Ovviamente ci furono caduti su entrambi i fronti: particolarmente numerosi per rimanere alla scherma gli olimpionici ungheresi, data la grande tradizione che quello sport ha tra i magiari.

Il tedesco Heinrich Schneidereit aveva sollevato i pesi alle Olimpiadi intermedie di Atene 1906, quelle che celebravano il decennale della prima competizione ateniese, e che non conteggiamo nel numerare i Giochi: a causa dello stato di tensione prebellica tra la Grecia e l’Impero Ottomano la prevista edizione del 1910 sfumò, lo scoppio della guerra impedì lo svolgimento dell’edizione del 1914 e in seguito l’iniziativa dei Giochi intermedi venne definitivamente abbandonata.

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Una delle storie sportive più curiose è quella di un altro capitano morto a Neuve-Chapelle poco più di un mese prima di Wilding, abbattuto da un cecchino mentre cercava di recuperare un collega ufficiale ferito. Anche lui aveva scritto una lettera pochi giorni prima della fine, descrivendo le difficoltà a uscire dalle trincee con addosso il pesante equipaggiamento, ragione per cui molti soldati venivano uccisi proprio mentre cercavano di farlo: “ho provato a scavalcare il parapetto – scriveva – e sono ricaduto indietro. I Jocks (un soprannome elogiativo molto diffuso per i soldati della “prima armata”) mi hanno sollevato e sono così atterrato in un fosso, pieno di fango liquefatto, e ho fatto fatica a venirne fuori”. Questa era la vita (e la morte) di quei ragazzi nelle trincee.

Lui si chiamava Wyndham Halswelle e rimane l’unico ad avere vinto una finale dell’atletica leggera correndola da solo. Successe nel 1908, l’edizione londinese che noi ricordiamo soprattutto per un’altra drammatica corsa, quella maratona vinta da Dorando Pietri poi squalificato per via dell’aiuto dei giudici che lo avevano rialzato mentre barcollava verso il traguardo, ciucco di stanchezza. E di sostanze, anche se tendiamo a ometterlo: all’epoca si usava la stricnina, proprio il veleno, per aumentare la resistenza. Peraltro l’uso dopante della stricnina avrà un utilizzatore molto illustre in un altro volontario della prima guerra mondiale, il caporale Adolf Hitler che (purtroppo, mi permetto di dire) non morì in battaglia verso la fine del 1918 prima per l’atto di pietà di un soldato inglese e poi sopravvivendo all’avvelenamento del “gas mostarda”.

La finale cui partecipò Halswelle era quella dei 400 piani, e si qualificò stabilendo con 48 secondi e 4 il nuovo record Olimpico. Allora non si correva nelle corsie, e nei primi 50 metri il britannico venne ostacolato da William Robbins, uno dei suoi tre avversari, tutti americani. Si avvantaggiò John Carpenter ma Halswelle lo rimontò e stava per passarlo sul rettilineo finale quando Carpenter lo portò fin quasi fuori pista.

Gara annullata dai giudici, putiferio, scontro tra atleti britannici e statunitensi cui si uniscono volentieri gli astisti che stavano gareggiando contemporaneamente, spettatori che entrano in pista, deve intervenire la polizia.

Gli americani sostengono che quanto fatto da Carpenter da loro è lecito, d’altronde sono più o meno gli anni del giudice Roy Bean che a ovest del Pecos amministra la legge tenendo un orso alla catena.

Alla fine viene decisa la ripetizione della finale e gli atleti Usa scelgono di non partecipare, anche se uno di loro lo fa molto a malincuore: si chiamava John Taylor e nella stessa edizione divenne il primo campione afro-americano dei giochi (Jesse Owens nascerà cinque anni dopo) grazie alla vittoria con la squadra nella staffetta. Pochi mesi prima si era laureato veterinario, pochi mesi dopo morì per una febbre tifoidea. Il New York Times gli dedicò uno dei suoi famosi necrologi definendolo: “the world’s greatest negro runner.”

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La guerra ha cambiato il destino di una generazione di giovani, a volte in modo davvero inaspettato. Una delle storie più interessanti raccontate in ‘La migliore gioventù. Vita, trincee e morte degli sportivi italiani nella Grande Guerra’ di Dario Ricci e Daniele Nardi riguarda un nostro conterraneo.

“Ma davvero troppo poco sarebbe definire Erminio Spalla “solamente” un pugile: perché per questo ragazzo nato il 7 luglio 1897 a Borgo San Martino, in provincia di Alessandria, le mani furono davvero qualcosa in più dell’“arma” da caricare per spedire al tappeto l’avversario di turno. Quei pugni, quelle mani, furono per Erminio lo strumento attraverso cui esplorò il mondo, costruì il suo destino, raccontò la sua vita, lui che –oltre che grande boxeur –fu scultore, attore, pittore, ebbe ambizioni di cantante lirico e si rivelò pure fine scrittore”, si legge nel libro che il giornalista di Radio 24 ha scritto con l’alpinista che in questi giorni sta affrontando il Nanga Parbat.

La nobile arte, dopo il trasferimento a Milano con la famiglia (il padre commerciava in vini e sottaceti), Spalla la praticò prima nella palestra dell’U.S. Milanese poi sotto le armi, dove si fece notare per parecchie scazzottate, una anche con gli alleati soldati inglesi con tanto di elogi del capitano dei britannici che naturalmente apprezzò le doti di combattimento del ragazzo monferrino.

E una specie di glorioso epilogo della guerra fu per lui la conquista dell’oro ai Giochi militari “interalleati” di Joinville a Parigi nel 1919. Fu una manifestazione degna dell’Olimpiade quella organizzata da “Black Jack”, il generale americano Pershing.

“Tutti i nostri atleti indossavano la maglia bianca e i calzoncini bianchi o neri a seconda della squadra di cui facevano parte. Portavano il berretto militare. La squadra era capitanata da un bersagliere in uniforme che fungeva da portabandiera, ed era chiusa dalla équipe del foot-ball nella elegante maglia azzurra” si legge su La Gazzetta dello Sport” il 23 giugno 1919. Noi vincemmo le gare soprattutto nella scherma con il grande Nedo Nadi e nell’equitazione, con due olimpionici come Giulio Cacciandra (argento e bronzo un anno dopo a Anversa), Alessandro Alvisi (bronzo sia nel 1920 che nel 1924) e con il tenente Ruggero Ubertalli che deteneva il prestigioso record di salto in elevazione con 2,20 metri e che fu autore di un manuale ancora edito: Elementi di equitazione naturale.

Poi, poi a vincere la più sorprendente delle medaglie nella categoria dei medio-massimi, fu proprio il sergente Erminio Spalla.

Affidiamoci nuovamente a quanto scrivono Ricci e Nardi:

“Lo stadio in delirio celebra il trionfo di Erminio Spalla. Lui, prima di abbandonarsi ai festeggiamenti, cerca un chirurgo, che in una decina di minuti gli mette a posto quella guancia su cui Pettibridge aveva stampato un suo “ricordino”. “Qualche giorno dopo il generale Pershing, comandante in capo delle forze americane, durante la cerimonia di premiazione mi consegna il diploma di campione del mondo dei militari e mi dice alcune parole che chi sa quante belle cose avranno voluto dire…”, ricorda con compiaciuta ironia il campione. Finisce così la carriera del soldato-boxeur”.

Non finisce invece la carriera del pugile, che sarà campione europeo, ma soprattutto seguono le vite artistiche di Erminio: scultore, pittore, cantante lirico (era amico di Enrico Caruso e Beniamino Gigli) e persino attore tra l’altro in ‘Miracolo a Milano’ di Vittorio de Sica, nel 1951, e ‘Poveri ma belli’ di Dino Risi, nel 1957.

 

La altri parti:

https://mag.corriereal.info/wordpress/2018/11/19/dulce-et-decorum-est-lettera-32/

https://mag.corriereal.info/wordpress/2018/11/26/dulce-et-decorum-est-2-lettera-32/

https://mag.corriereal.info/wordpress/2019/01/14/dulce-et-decorum-est-3-lettera-32/