Austerità

Soro Bruno 2di Bruno Soro
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“Una diminuita propensione al consumo di oggi può dar luogo ad un vantaggio pubblico soltanto se si prevede che un giorno essa sarà accresciuta.”
J.M. Keynes, “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”, UTET, Torino, 1971, p. 247.

In un’intervista rilasciata qualche giorno fa al quotidiano La Stampa, l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder ha sostenuto “che l’austerità è il prodotto di una certa ideologia” e che in alcuni paesi del Sud Europa i problemi sociali stanno diventando così gravi che vi è il rischio che tutto ciò provochi “la fine del progetto europeo”.

Nella lingua italiana il termine “austerità” ha come sinonimi severità e rigore, ma nell’accezione in voga in economia esso sta ad indicare una “politica di limitazione dei consumi privati e delle spese pubbliche” (DISC). Al fine di illustrare il cosiddetto “paradosso del risparmio”, in base al quale quanto più un sistema economico è frugale (altro sinonimo di austerità) tanto meno in esso si produrrà reddito, John Maynard Keynes ricorre più volte, nella sua Teoria generale, al settecentesco poemetto satirico di Bernard MandevilleLa favola delle api: ovvero vizi privati e benefizi pubblici”. In quella favola si racconta di un alveare “affollato di api, che viveva nel lusso e negli agi”, nel quale tuttavia le api erano scontente in ragione del fatto che l’alveare pullulava di furfanti e malfattori. A seguito della rivoluzione dei probi, i furfanti, divenuti onesti, “frugalmente vivevano ora del proprio stipendio”. Nel nuovo regime di austerità, però, in cui si produceva soltanto il necessario, molte fabbriche vennero chiuse e molte api, avendo perso il lavoro, abbandonarono l’alveare. Le api rimaste, dopo aver resistito agli attacchi di numerosi nemici, “indurite dalla fatica e dall’esercizio, considerarono un vizio lo stesso risposo, e ciò rafforzò talmente la loro sobrietà che, per evitare ogni eccesso, volarono nel cavo di un albero tutte soddisfatte e oneste”. Il brano citato da Keynes, tratto dalla nota Q della favola nella quale viene disvelato l’inganno della parsimonia, è il seguente:

“La grande arte quindi di rendere felice e prospera una nazione consiste nel dare a ciascuno la possibilità di lavorare; per realizzare questo scopo la prima cura del governo sia quella di promuovere una tale varietà di manifatture, di mestieri e di arti, quale l’umana intelligenza può immaginare, e in secondo incoraggi l’agricoltura e la pesca in tutte le loro branche (…)
E’ da questa politica e non dai regolamenti sulla prodigalità e la frugalità (che esisteranno sempre a seconda delle condizioni economiche della gente) che bisogna far dipendere la grandezza e il benessere di una nazione (…)”.

In sintesi, la politica di limitazione dei consumi privati e delle spese pubbliche, mira a ridurre la domanda (sia interna che estera) allo scopo di favorire la formazione del risparmio, la riduzione del deficit e la conseguente riduzione del debito. E’ ampiamente comprovato da studi e ricerche che comprimendo la domanda di beni e di servizi le politiche di austerità ottengono risultati esattamente contrari alle intenzioni: la riduzione del reddito che consegue da tali politiche provoca, da un lato, una diminuzione del risparmio (il cui ammontare dipende dal reddito) e, dall’altro, un peggioramento dei conti pubblici (in seguito alle minori entrate della tassazione, anch’essa in gran parte legata al reddito). Di qui il paradosso che la parsimonia, riducendo i consumi, non arricchisce la nazione, bensì la impoverisce.

Ora, stando ai dati resi noti dall’ufficio statistico europeo il 31 ottobre scorso, nell’Unione Europea la disoccupazione ha quasi raggiunto i 27 milioni di unità (quasi quanto l’intera popolazione di quattro paesi come l’Austria, il Belgio, la Danimarca e l’Irlanda), di cui poco meno di 20 milioni nell’eurozona (all’incirca l’intera popolazione di due paesi come il Portogallo e la Repubblica Ceca). L’imposizione ai paesi dell’area mediterranea della regola dell’austerità, stigmatizzata tra l’altro dal Premio Nobel Paul Krugman nell’editoriale de Il Sole 24 Ore di domenica scorsa, fa sì che valga la pena di chiedersi se tra le cause della crisi economica non vi siano la debolezza della moneta unica unitamente alle modalità istituzionali con le quali si è proceduto, dal Trattato di Maastricht in poi, alla costruzione dell’Unione Monetaria (UME).

Inoltre, poiché nei giorni scorsi il Presidente del Consiglio Enrico Letta si è detto preoccupato dei populismi che, a pochi mesi dalle elezioni del futuro Parlamento Europeo, stanno agitando il clima politico dei 28 paesi dell’Unione in senso antieuropeista, vale forse la pena di riflettere su questi temi.

La crisi, è colpa dell’euro? E’ colpa della Germania? E’ colpa delle politiche intraprese dal 2008 al 2011 dal governo Berlusconi? Una risposta convincente a questi tre interrogativi si può trovare in un recentissimo libro del professor Mariano D’Antonio (“La crisi dell’economia italiana. Cause, responsabilità, vie d’uscita”, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2013). Due di quelle tre domande lascerebbero intendere che le responsabilità della crisi dell’economia italiana andrebbero ascritte ad altri (l’euro e la Germania), che pure in qualche misura hanno contribuito e contribuiscono ad aumentare i fattori di crisi, ma la responsabilità principale è da imputare al degrado culturale e istituzionale in atto nel nostro paese da almeno un paio di generazioni, degrado al quale i governi presieduti da Berlusconi hanno contribuito non poco.

L’euro è una moneta fragile, sostiene D’Antonio, e la sua fragilità, dovuta all’incompiutezza del percorso di unificazione europea, si ripercuote in misura maggiore sui paesi che sono più esposti alla crisi del debito. Ma procediamo con ordine. La moneta unica possiede vantaggi e svantaggi. Tra i primi, il fatto che l’euro abbia ridotto i costi di transazione, aumentato la trasparenza dei prezzi ed eliminato la speculazione sulle monete (diciassette tavoli da gioco in meno per la speculazione). Tra i secondi figurano invece la perdita della sovranità monetaria da parte dei singoli stati e l’impossibilità di svalutare la propria moneta. A questo proposito giova ricordare che, con l’applicazione di un cambio di mille lire per un euro contro le quasi due mila di quello ufficiale, l’introduzione dell’euro ha comportato in Italia una svalutazione interna che ha falcidiato il potere d’acquisto delle famiglie. Ciò detto, la fragilità della moneta unica è dovuta sostanzialmente a due fattori: all’unificazione della politica monetaria (con la creazione della BCE, ma con il compito quasi esclusivo di occuparsi della stabilità della moneta) e alla mancata unificazione della politica fiscale (lasciata di competenza agli stati nazionali). Così com’è stata congegnata, l’Unione monetaria avvantaggia i paesi con la bilancia commerciale in attivo (Austria, Germania, Paesi Bassi, Belgio, Finlandia, paesi che lucrano il fatto che le rispettive monete non possano essere rivalutate) e svantaggia quelli con la bilancia commerciale in passivo (Francia, Italia, Portogallo, Spagna, Grecia e Irlanda, danneggiate dall’impossibilità di svalutare la propria moneta). Essendo venuto meno il meccanismo di riaggiustamento degli squilibri commerciali in termini di competitività dei prezzi (per via della moneta unica che non può essere svalutata), e in assenza di una politica fiscale compensatrice (senza un’autorità europea che gestisca la politica fiscale i paesi che lucrano i vantaggi non sono disposti a cederli a quelli su cui gravano gli svantaggi, nota 1),  il processo di aggiustamento in termini di reddito penalizza i paesi deboli a tutto vantaggio di quelli forti, accentuando le disuguaglianze. In un simile contesto l’uscita dall’euro sarebbe una soluzione? Se potesse avvenire al cambio di 1936,27 lire per ogni euro i lavoratori dipendenti ne avrebbero un vantaggio immediato. Ma stante la dimensione del debito pubblico italiano e l’attuale situazione dei conti pubblici, sul libero mercato dei cambi difficilmente si riuscirebbe a spuntare un cambio superiore alle 500/700 nuove lire per ciascun euro. Ognuno faccia i propri conti.

Quanto ai governi presieduti da Berlusconi, scrive D’Antonio, “il bilancio non è per niente lusinghiero”. Gli anni della moneta unica, tranne la breve parentesi dei due anni del governo Prodi (2006-2008), coincidono con l’esperienza dei governi berlusconiani. In questo periodo, vale a dire dall’inizio del nuovo secolo, l’economia italiana ha fatto registrare il più basso tasso di crescita in assoluto tra i 28 paesi della UE. A seguito di ciò, e fatta uguale a 100 la media dei paesi UE, il reddito pro capite degli italiani è diminuito di 20 punti percentuali ed è sceso al di sotto della media comunitaria. Quarta potenza economica e demografica della UE, l’Italia figura al dodicesimo posto nella graduatoria dei paesi in base al reddito pro capite. In questo lasso di tempo l’immagine all’estero dell’Italia è crollata, di pari passo alla fiducia degli stranieri, con le note ripercussioni di carattere finanziario. Ma la responsabilità maggiore è la sistematica distruzione del «capitale sociale» –  un concetto che sintetizza l’insieme delle regole che presiedono allo stato della fiducia dei cittadini, sia nei rapporti tra i cittadini e lo stato, sia tra gli stessi cittadini -, perpetrata dalla diffusione del sistema di valori (sarebbe più corretto chiamarli “disvalori”) del «furbismo all’italiana»: insofferenza per le regole, arroganza, prepotenza, irrisione degli onesti. A conclusione del suo libro, Mariano D’Antonio scrive: «L’infrastruttura istituzionale si è indebolita lasciando crescere la corruzione, criminalità, lavoro nero, evasione fiscale, comportamenti opportunistici di gruppi sociali organizzati, e la struttura dell’economia italiana ha seguito il deperimento istituzionale creandosi in tal modo un circuito vizioso tra l’assetto istituzionale e il ristagno economico».

Una tesi condivisa da un altro valente economista, Marcello De Cecco, il quale, in un recente saggio sul declino dell’Italia, scrive: “E’ evidente che attuare politiche economiche restrittive in un’economia di cui quasi metà del totale sfugge alla legalità e al dominio fiscale dello Stato, vuol dire continuare a cercare le chiavi sotto il lampione e non dove le si è perdute. Inasprire imposte e tasse, dirette ma anche indirette, vuol dire colpire per definizione i redditi palesi, ignorando quelli occulti”. Nota 2

Nella Morale della sua favola, Bernard Mandeville scrive che “il vizio diventa benefico quando è sfrondato e corretto dalla giustizia” e che “coloro che vorrebbero far tornare l’età dell’oro insieme con l’onestà debbono accettare le ghiande”. Per ironia della sorte, ottantaquattro anni dopo la prima edizione del poemetto satirico che esaltava le virtù del vizio dileggiando quelle della frugalità, a causa di un eccesso di ghiande il popolo francese si ribellò. E molte teste caddero.

1 Si veda in proposito l’articolo del capo economista del Lisbon Council Alessandro Leipold su Il Sole 24 di domenica 10 novembre.
M. De Cecco, «Una crisi lunga mezzo secolo: le cause profonde del declino italiano», in Economia italiana, n. 3, novembre 2012, pp. 69-92.