Made in Italy: esportare la dolce vita [Il gusto del territorio]

made-in-italydi Eleonora Scafaro

 
Export e made in Italy. Un binomio importante per il panorama commerciale italiano che, negli ultimi mesi, si è rallentato coinvolgendo più di un miliardo di consumatori potenziali interessati ai nostri prodotti.

Due terzi di questi sono principalmente concentrati in Cina e in India, dove l’interesse verso il made in Italy equivale a quello per il bello e il ben fatto.
Cioè i beni di consumo come il settore dell’alimentazione e della persona; esportiamo salumi, vini, arredamento, abbigliamento e oreficeria. Ad esempio, l’export manifatturiero, oggi, vale il venti per cento del commercio italiano.

Questi nuovi mercati hanno generato un nuovo target di utenza, principalmente dedicato ad un ceto benestante.

L’oreficeria rimane uno dei capisaldi dell’export italiano. Con un fatturato di 2,7 miliardi in Cina, Turchia, Emirati Arabi, Messico, Sud Africa, Polonia e Russia.

“Esportare la dolce vita è una grande opportunità – afferma Giuseppe Monighini, responsabile Ufficio Studi Confindustria Alessandria, durante il convegno ‘Il bello del made in Italy tra filiera industriale ed etichette oneste e trasparenti’ – e i paesi con maggiore prospettiva di sviluppo e consumo, sono la Russia e il Sud America”.

Gli studi fatti, poi, sul settore del turismo fanno emergere una tipologia di turista con grande possibilità di spesa.
L’Italia, primo paese al mondo per la presenza di siti Unesco, è solo quinta al mondo per presenze di turisti.

Anche sul territorio alessandrino ci sono aziende che ben rappresentano il bello del made in Italy e che, soprattutto, lavorano per il bello.

Una di queste è la Notarianni di Valle San Bartolomeo che fa etichette per l’industria alimentare, in particolare per il vino. Ha una clientela di settore che poco investe sulla comunicazione; nella fase dello sviluppo del design dell’etichetta, collabora a stretto contatto con l’ufficio marketing del cliente, trovando soluzioni per un risultato finale consono al prodotto. Come l’etichetta a doppia faccia: da un lato bella, con grande impatto visivo, dall’altra, da poco tempo, le esigenze del consumatore hanno portato alla creazione di una etichetta più grande dove leggere elementi del prodotto con maggiore chiarezza.

Altra azienda alessandrina è la Centrale del Latte, che nel 2014 ha fatto un grande butti-centrale-lattelavoro di design per lanciare sul mercato il latte microfiltrato. Nasce, così, una linea di etichette, studiate da un grafico, che verrà utilizzata sia sul nuovo, che sugli altri prodotti perché comunica i valori dell’azienda: qualità e sostenibilità della filiera.

E’ di qualche giorno fa il via libera al decreto che introduce l’obbligatorietà dell’etichetta di origine per latte, yogurt, formaggi e latticini. L’etichetta resta anonima, invece, per circa un terzo della spesa. Dai salumi ai succhi di frutta, dalla pasta al latte a lunga conservazione, dal concentrato di pomodoro ai sughi pronti fino alla carne di coniglio.
Circa otto consumatori su dieci non sono soddisfatti di ciò che c’è scritto sull’etichetta. Il consumatore deve avere il diritto di sapere e di scegliere cosa comprare. I prodotti con indicazione di origine sono ancora pochi: carne di pollo, frutta, verdura, uova, pomodoro, latte e formaggi, appunto, pesce e olio extra vergine di oliva.

Gran parte dei salumi, ad esempio, vengono fatti con carne importata e poi lavorata in Italia, mentre la pasta è composta anche da grano straniero.

Circa il sessantasette per cento del concentrato di pomodoro arriva dalla Cina (circa + 379 per cento di importazione).
E che dire della truffa dell’olio di oliva? Sui banchi dei supermercati c’è più olio spagnolo che italiano. Se una bottiglia di olio costa meno di 2,50 euro, non è olio italiano. Oppure è fatto in laboratorio, senza neanche l’ombra di una oliva.
Per avere una sicurezza maggiore, il consumatore compra dal contadino. Negli ultimi cinque anni la spesa dal coltivatore è aumentata di circa il dodici per cento, così come quella nei discount.

Il consumatore italiano, quindi, diventa sempre più consapevole, mentre il made in Italy deve fare i conti con l’italian sounding: prodotti venduti all’estero spacciati come italiani da un nome che assomiglia a quello vero.

“Il made in Italy non è la materia prima, è la trasformazione ultima, il prodotto fatto e finito – spiega Vito Rubino, ricercatore di diritto dell’Unione Europea dell’Università del Piemonte Orientale. Esempi lampanti sono il caffè e il cioccolato. L’Italia non coltiva queste due materie prime, però gli italiani sono considerati i migliori trasformatori”.

Made in Italy è, quindi, la capacità di trasformare le materie prime.

Anche l’indicazione di provenienza è fuorviante perché non si riferisce alla materia prima, ma a quella della trasformazione.

“Per quanto riguarda l’italian sounding, purtroppo non esistono strumenti per contrastarlo” continua Rubino. Il problema dovrebbe risolverlo il diritto privato, distinguendo tra contraffazione ed evocazione.

La contraffazione inganna il consumatore mentre l’evocazione non vende un prodotto come tale, lo ricorda attraverso l’utilizzo di un nome simile, come il parmesan o il reggianito.