Caso Eternit: analisi delle motivazioni della sentenza della Corte di Cassazione

L’ Eternit a Casale, un piccolo ripasso fino alla “prescrizione”. Il Diritto e la Giustizia, il Reato e gli Effetti del reato. Dettagli sulla sentenza. Ciò che avrebbe potuto fare la Cassazione..

LA PRESCRIZIONE.
Questo articolo è la continuazione del mio precedente: “Sentenza Eternit. Quando le parole non sono pietre” pubblicato su Città Futura, Corriereal, Appunti Alessandrini. Il reato di disastro ambientale doloso e permanente più grave accaduto in Italia negli ultimi decenni (tremila morti, per ora, solo a Casale: una strage), dopo i processi di primo grado e di appello svoltisi a Torino, si era concluso con la condanna dell’imputato Stephan Schmidheiny, condanna cancellata dalla Corte di Cassazione il 19/11/14 (due ore di camera di consiglio!), conformemente alla richiesta del P.G. e della difesa dell’imputato, per prescrizione senza rinvio, eliminando pertanto la condanna a 18 anni inflitta all’imputato, i risarcimenti alle vittime (30000 euro a testa) e agli Enti, l’obbligo di bonifica, il risarcimento di 280 milioni all’INAIL per le prestazioni ai lavoratori colpiti. Infatti la prescrizione di 15 anni è stata fatta iniziare dal 4/6/86, quando per decreto è stata chiusa la fabbrica su istanza di autofallimento, per cui i due processi non avrebbero dovuto neppure essere celebrati. Il 23/2/15 sono state depositate le Motivazioni.

L’ETERNIT A CASALE
Da una parte dunque abbiamo Casale (e altri luoghi), dove per 80 anni ha funzionato l’Eternit, fabbrica di vari manufatti di amianto, la cui inalazione produce varie tipologie di cancro al polmone, la più grave delle quali, il mesotelioma pleurico (incurabile) ha un’incubazione che può arrivare fino a 40 anni. L’amianto, pur avendosi la certezza negli ambienti scientifici della sua pericolosità fin dagli anni ’50, è stato lavorato senza alcuna precauzione né all’interno né all’esterno della fabbrica: vi giungeva dalla stazione con un trenino scoperto; gli aspiratori pompavano la polvere dallo stabilimento all’esterno; i sacchi di amianto venivano travasati a mano nelle tramogge e nelle molazze; la frantumazione dell’amianto era eseguita manualmente a cielo aperto nel cortile; il trasporto dell’amianto dalla fabbrica ai quattro magazzini e alle discariche avveniva con camion scoperti; gli operai avevano una sola tuta che portavano a casa a lavare; nelle discariche le ruspe frantumavano i manufatti inutilizzabili, alzando un’enorme quantità di polvere; questa veniva usata dai casalesi, ignari, per coprire i sottotetti e i cortili delle case e delle cascine; i filtri consumati, di 2 metri per 6, venivano messi sulle tettoie; sui cumuli di polverino ammonticchiati dovunque giocavano i bambini; l’acqua per lavare lo stabilimento e i macchinari finiva in un canalino che sfociava nel Po: l’amianto bagnato è innocuo, ma si depositava sulla sponda destra del fiume, asciugandosi; si credeva che l’amianto mescolato al cemento che formava le .lastre per i tetti non fosse pericoloso: ma dura 30 anni, poi gli agenti atmosferici lo sbriciolano e il polverino si sparge; il vento prevalente a Casale si muove dalla fabbrica verso il centro.
Tutto questo accadeva ancora negli anni ’70 e ’80, fino alla chiusura.
Prima sono morti molti operai della fabbrica, che lavoravano senza nessuna protezione, 200 (minimo, perché spesso le vedove rifiutavano l’autopsia); nel 1997 i morti contati erano 400; nel frattempo cominciano a morire i cittadini (il 90% degli estinti: Bruno Pesce, coordinatore dell’AFeVA) che in fabbrica non erano mai entrati, che abitavano nei dintorni; poi altri, di Casale e dei borghi vicini. Oggi il numero accertato è 3000 morti, più quelli che verranno: si calcolano 80 nuovi malati l’anno, a salire, fino al 2025. Una città distrutta: aggiungiamo il dolore dei familiari e il terrore continuo di tutti gli abitanti di ammalarsi.
Quanto sopra esposto è tratto da un importante libro, che raccoglie le testimonianze di operai, familiari, medici, sindacalisti, membri dell’AFeVA (MORIRE D’AMIANTO, a c. di Mirco Volpedo e Davide Leporati, La Clessidra Editore, Genova, 1997), e racconta e documenta vent’anni di lotta sostenuta per ottenere via via le ispezioni dell’Ispettorato del Lavoro (87 ore di sciopero nel ’76 per chiedere un’indagine ambientale in fabbrica, eseguita l’anno successivo) e un adeguato controllo sanitario dei lavoratori; la perizia del geniale prof. Salvini di Pavia il quale, vedendo la fabbrica per l’occasione tirata a lucido, trovò dovunque tracce di polvere d’amianto usando un pennello; la lunga vertenza affinché l’INAIL riconoscesse il mesotelioma come malattia professionale; il censimento dei siti promosso dal compianto e benemerito sindaco Riccardo Coppo, che emise persino due ordinanze nell’87 e nell’89 vietando l’impiego di manufatti d’amianto nell’edilizia, e precorrendo così l”ottenimento della legge del 27/3/92, che vieta la produzione e il commercio dell’amianto in tutta l’Italia. I giudici della Corte di Cassazione avranno sicuramente letto il libro.

L’IMPUTATO
Dall’altra parte abbiamo l’imputato Stephan Schnidheiny, membro di una secolare miliardaria dinastia svizzera di industriali, che diventa, trentenne, definitivamente, l’erede dell’Eternit nel 1977 (l’Eternit faceva già parte del gruppo svizzero dal 1939, insieme a un gruppo belga, il cui proprietario, coimputato, è morto novantaduenne durante il processo. Non si sa se prima di obbedire al padre, il rampollo abbia visitato la fabbrica di Casale, che si trovava in uno stato disastroso. E’ certo invece che a giugno del ’76 aveva organizzato una conferenza di industriali a Neuss, in cui riferiva all’uditorio che l’amianto blu (crocidolite, il più pericoloso) era stato vietato in molti paesi perché induceva tumori, in particolare il mesotelioma pleurico: i lavoratori svizzeri dell’Eternit vennero informati immediatamente del rischio del cancro e del mesotelioma; quelli italiani vennero mendacemente rassicurati (prova del dolo diretto e consapevole?). In Svizzera la produzione dell’amianto fu abbandonata dall’Eternit nel 1978 (La Stampa 6/3/13). Nonostante ciò, Schmidheiny ometteva di adottare le misure di sicurezza obbligatorie nello stabilimento di Casale, quelle elencate a p. 4-5 delle Motivazioni della Sentenza della Corte di Cassazione (reato estinto per prescrizione già al primo processo), e seguite dall’elenco numerico dei 2215 morti e dei 665 malati. Il P.G. della Cassazione Iacoviello nella sua requisitoria lo definisce “un criminale miliardario che non ha neppure un segno di umanità e prima ancora di rispetto per le sue vittime” (Diritto Penale Contemporaneo 21/11/2014).
L’ART. 434 C.P.
In mezzo c’è l’art.434 del Codice Penale, in virtù del quale Schmidheiny è stato condannato in primo e secondo grado dal tribunale di Torino per danno ambientale doloso permanente. Tuttavia l’art.434 risale al Codice Zanardelli (1889), ripreso dal Codice Rocco (1930), e parla di “disastro innominato” e di “altro disastro”, formule obsolete e indeterminate, in quanto non definiscono cosa si intenda per altro disastro e tanto meno cosa significhi innominato. E così questo articolo, già fumoso, laconico e insensato di suo, è stato utilizzato dopo più di cent’anni, e dilatato, in mancanza di altro, per giudicare eventi spaventosi dei nostri giorni: Seveso, Porto Marghera, Ilva di Taranto, Enichem Monte Sant’Andrea, terra dei fuochi, Eternit, ecc., suscitando interpretazioni diverse e pronunciamenti diversi della Cassazione (Elisabetta Vinci, Il disastro ambientale. EXEO 27/5/2014). L’incredibile novità della sentenza Eternit è che in essa i morti sono scomparsi: non ci sono. Lo ammette con pirandelliano candore il Comunicato stampa della Cassazione il giorno successivo alla sentenza: “Oggetto del giudizio era esclusivamente il disastro ambientale, la cui sussistenza è stata affermata dalla Corte, che ha dovuto però prendere atto dell’avvenuta prescrizione del reato. Non erano quindi oggetto del giudizio i singoli episodi di morti e patologia sopravvenute, dei quali la Corte non si è occupata” (DPC 21/11/14). Come dire che nel reato di disastro ambientale i morti non sono contemplati: sono i morti che hanno sbagliato, dovevano morire tutti dentro la fabbrica almeno un minuto prima che ne fosse decretata la chiusura.

DIRITTO E GIUSTIZIA
Nel giustificare la sua richiesta di applicare la prescrizione, e forse per motivare l’enormità di aver accantonato 3000 tra morti e malati, pur elencati con nome e cognome negli Allegati delle Motivazioni, il P.G. Iacoviello ha affermato: “L’ imputato è responsabile di tutte le condotte che gli sono state ascritte, ma il giudice sottoposto alla legge, tra diritto e giustizia deve sempre scegliere il diritto. La prescrizione non risponde a esigenze di giustizia, ma ci sono momenti in cui diritto e giustizia vanno da parti opposte” (Il Sole 24 ore 24/11/149). Tale “filosofia” è stata rispettosamente criticata da Zagrebelsky: “E’ però lecito chiedersi se non c’era davanti ai giudici una scelta ragionata e seriamente documentabile che mettesse d’accordo diritto e giustizia. Alla nostra Cassazione è mancata la capacità di affermare un diritto che non oltraggia la giustizia (La Stampa 20/11/14). Analogamente Renato Balduzzi: ” Opporre giustizia a diritto o diritto a giustizia mi è sempre parso poco saggio, non consono a uno Stato Costituzionale di diritto. L’applicazione della prescrizione al caso dell’amianto configura un vero e proprio diniego di giustizia (La Stampa 20/11/14). Carlo Federico Grosso commenta: ” Se per effetto del disastro si verifica la morte o la malattia di qualcuno, con il delitto di disastro concorrono quelli di omicidio e di lesioni personali tanti quante sono le persone uccise o comunque offese; il disastro si consuma finché gli effetti del disastro si siano esauriti, fino all’ultimo decesso “(Corriere della sera 21/11/14), in altri termini: la prescrizione non era applicabile. Gian Carlo Caselli osserva: ” E’ difficile liberarsi dalla brutta sensazione che i magistrati della Cassazione abbiano deciso asetticamente, burocraticamente, soltanto sulle carte. Oltre le carte c’è la realtà di tutti questi morti, del dolore, delle vite spezzate (Il Fatto Quotidiano 21/11/14).
Iacoviello ha applicato il sistema binario di Leibniz, ignorando la dialettica di Hegel: nella dicotomia diritto-giustizia il primo rappresenterebbe il vero, il reale, il concreto, mentre la seconda l’utopico, l’irreale, l’astratto. Invece si tratta del contrario: il diritto è fatto di parole, manipolabili a piacere come facevano i sofisti all’epoca di Socrate (parole non eterne, perché la lingua è prodotta dalla società e cambia col passare del tempo), la giustizia è fatta di vita. La realtà sono i morti, non l’insulso art. 434 del c.p.
Memorabile e attuale il monito di Piero Calamandrei: ” Le leggi sono vive perché dentro queste formule bisogna far circolare il pensiero del nostro tempo, lasciarvi entrare l’aria che respiriamo, mettervi dentro i nostri propositi, le nostre speranze, il nostro sangue e il nostro pianto. Altrimenti le leggi non restano che formule vuote, pregevoli giochi da legulei; affinché diventino sante, vanno riempite con la nostra volontà” (Arringa al Tribunale di Palermo in difesa di Danilo Dolci, 30/3/1956).

IL REATO E GLI EFFETTI DEL REATO
L’affermazione più forte della Cassazione per applicare la prescrizione e cancellare i 3000 morti, come sottolineato da tutti i giornali, è stata: ” Il Tribunale ha confuso la permanenza del reato con la permanenza degli effetti del reato; la Corte di appello ha inopinatamente aggiunto all’evento costitutivo del disastro eventi rispetto ad esso estranei ed ulteriori, quali quelli delle malattie e delle morti, costitutivi semmai di differenti delitti di lesioni e di omicidio (Motivazioni p.77). A parte il cinismo involontario di quell’ “inopinatamente”, sfugge la netta separazione tra reato e effetti del reato. Se un’industria farmaceutica vende un farmaco letale, deve pagarne le conseguenze anche a distanza di anni; se un automobilista dolosamente investe un pedone che muore successivamente, il suo reato passa da lesioni a omicidio colposo; se il proprietario di un fondo lascia un pozzo scoperto e un bambino vi cade dentro, ne deve rispondere penalmente. Bruno Pesce cita i morti dopo molto tempo a causa della radiazioni di Hiroshima e Nagasaki. Per la Cassazione invece il reato è cessato quando l’imputato ha chiuso la fabbrica, applicando pertanto la prescrizione, essendo trascorsi i 15 anni previsti dalla Legge ex Cirielli. Riguardo ai morti, la Cassazione tralascia l’epidemia, dimostrata dall’escalation dei decessi: da 200 a 3000 in quarant’anni, che continua inesorabile. Non è un’epidemia di formiche o di morbillo: si tratta di mesotelioma provocato dall’ amianto che ha ricoperto per decenni una città. Oltretutto, quando l’imputato ha chiuso la fabbrica, l’ha abbandonata senza precauzioni con vetri rotti, tonnellate di amianto sparse per ogni dove, in balia di tutti i venti. Solo nel 2001 è iniziata la bonifica, a spese degli Enti Locali. L’abbandono senza misure cautelari non è condotta punibile come reato permanente? (Claudio Debetto in DPC 24/11/14).

LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
Passo ora ad esaminare le Motivazioni della sentenza della Cassazione, depositate il 23/2/2015: alcune parti soltanto, inevitabilmente; la cosa migliore sarebbe tradurla in italiano dall’antilingua in cui è scritta, ma è un’impresa superiore alle mie forze.
Vi troviamo, riassunti: i giudizi di merito, la storia dell’Eternit, la sentenza di primo grado e quella di appello (pp. 4-22) esposti in italiano di registro alto ma comprensibile. Poi l’antilingua dei ricorsi degli avvocati dell’imputato e delle società coinvolte (pp.22-52 e 57-59), consistenti in asserite violazioni di diritti di difesa, distorsioni, violazioni di legge, illegittimità, inosservanze, censure, doglianze, in parte respinte dalla Corte, a cominciare dalla richiesta di rigetto (immancabile) della competenza del Tribunale di Torino. in quanto condizionato dalle pressioni emotive (lo credo: 2215 morti e 665 moribondi). La difesa dell’imputato si impegna soprattutto a demolire le indagini epidemiologiche (lo credo: l’epidemia con dolo diretto prevede l’ergastolo, art.438 c.p.); poi a fare un’ inestricabile deliberata confusione sulle date in cui l’imputato è diventato proprietario o “effettivo gestore”(p.33) dello stabilimento; denuncia torti subiti come le dilazioni rifiutate dal Tribunale di Torino, il quale ha rigettato la richiesta della difesa di sentire le testimonianze delle 6300 parti civili (DPC 13/2/12), e quella di rinvio per la traduzione di 400 documenti in lingua tedesca (p.27). Afferma ancora la difesa che la situazione degli stabilimenti italiani era catastrofica (p.37); ma allora perché Schmidheiny non li ha chiusi, come ha fatto con la fabbrica svizzera? Evidentemente ha sopravvalutato la robustezza dei polmoni degli operai e dei cittadini casalesi. Però la difesa tace sul caso della giornalista casalese, ora radiata dall’Ordine, che dal 1984 al 2005, fingendosi attivista dell’ AFeVA, spiava le mosse degli avvocati di parte civile. Al processo di Torino è risultato che riceveva un compenso mensile da un’agenzia ingaggiata dall’imputato per carpire informazioni; la domanda è: chi le utilizzava? (La Stampa 5/12/14).

LA SENTENZA
La parte che meglio risponde alla caratteristiche dell’antilingua giuridica deprecate da Bice Garavelli Mortara, è la sentenza vera e propria (pp. 60-86, meno di quelle dedicate alla difesa). Ci sono tutte, applicate con coerenza e rigore. Spiccano i periodi lunghissimi irti di subordinate, sintassi contorta, abuso di tecnicismi e di tecnicismi collaterali. Lo scopo principale di queste 26 pagine mira a giustificare non la scelta, per la Cassazione ovvia, di applicare la prescrizione (pur trattandosi, a parere di don Luigi Ciotti, di una vera e propria “strage” (Libera nov.1914); (certo non in senso giuridico perché manca “il fine di uccidere” previsto dall.art.422 c.p.), bensì la data della decorrenza della prescrizione, individuata nel giorno di chiusura della fabbrica, della quale Schmidheiny cessa di essere “l’effettivo gestore”.
La lettura delle pagg.62-72 mi ha prodotto una strana sensazione: esse consistono, pur con i doverosi e complessi distinguo, una lista di accuse all’imputato: l’epidemia causalità collettiva e non individuale, il disastro interno (alla fabbrica) ed esterno (la popolazione) (p.62); lo spostamento in avanti della consumazione del reato, disastro ancora in atto contro la pubblica incolumità (p.64); nel disastro innominato possono essere ricondotti eventi che possono realizzarsi in un arco di tempo anche molto prolungato; le immissioni tossiche incidono sull’aria respirabile: l’effetto è un’azione realizzata mediante violenza (p.66, con tagli); il processo produttivo che libera sostanze tossiche è violenza; reato aggravato dall’evento (p.67).
Poi però la Corte introduce una distinzione fra primo e secondo comma dell’art.434, per cui non si può parlare di epidemia perché mancano “i germi” (p.67: letterale!); affermando che il dolo è intenzionale rispetto al disastro ed eventuale rispetto alla pubblica incolumità (p.68): già qui si intuisce dove vuole arrivare. A p.72, infatti, la Corte di Cassazione conclude il paragrafo: “la realizzazione dell’evento disastro funge da elemento aggravatore, ma la data di consumazione del reato comunque coincide con il momento in cui l’evento si è realizzato”. Tutto l’inghippo sta nel “ma” e nel “comunque” che sono connettivi : parole, perlopiù congiunzioni o avverbi, che uniscono con legame logico o sintattico due frasi; il loro numero è ovviamente maggiore nell’ipotassi (periodi lunghi con tante subordinate), dunque frequenti nel linguaggio giuridico (li ha studiati a lungo Bice Mortara Garavelli, op.cit.). I connettivi possono diventare pericolosi quando esprimono causalità, spacciando per vero ciò che talvolta è solo opinabile. Se leggo ” Il tram aveva un sedile bagnato perciò è deragliato”, chiunque capisce che “perciò” non ha senso. Ma se leggo: ” Il legislatore ha inteso delineare una fattispecie a consumazione anticipata, sottraendola alle regole generali della disciplina del tentativo, così rendendo, tra l’altro, irrilevanti le evenienze del 3° e 4° comma dell’art.56 e strutturando quindi alla stregua di fattispecie aggravata l’ipotesi dell’evento realizzato”(p.69), come faccio a capire se i due connettivi “così” e “quindi” sono usati correttamente? La sentenza della Cassazione è quasi tutta scritta in questo modo, alla faccia di Sabino Cassese che raccomandava “per la composizione della frase, si adotti lo schema semplice soggetto, verbo, complemento” (ancora Bice Garavelli Mortara, op. cit. p.86).
La Cassazione propone poi una serie di distinguo tra commissione, perfezione e consumazione del reato. A tale proposito mi sembra decisivo l’editoriale di Luca Santa Maria “Il diritto non giusto non è diritto ma il suo contrario” (Rivista Diritto Penale Contemporaneo n.1,2015), perché si immerge nella Sentenza, confutandola. Questo editoriale andrebbe letto integralmente; provo a coglierne il nocciolo, semplificando e inevitabilmente impoverendolo. Luca Santa Maria nega che la prescrizione fosse l’esito scontato, perché la Corte muove dalla distinzione – di origine puramente dottrinale – tra “perfezione” e “consumazione” del reato, dove la consumazione coinciderebbe con il momento in cui si chiude la fabbrica, perché la massima gravità si avrebbe al verificarsi dell’evento: quando cessa l’immissione delle fibre di amianto non c’è più. Ma questa è una mera congettura. Il punto debole sta nell’aver considerato come evento di disastro l’abbancamento dell’amianto nelle aree esterne, e non nella dispersione dell’amianto dovunque per interi decenni. Eppure la stessa Corte aveva correttamente riconosciuto l’evento del disastro proprio nell’immutatio loci (alterazione dello stato dei luoghi, delle cose, delle persone: la devastazione del territorio), provocata dalla contaminazione dell’aria quando gli impianti erano attivi. Questa concezione dell’evento di disastro ambientale accolta nella prima parte della Sentenza, avrebbe dovuto fissare il calcolo della prescrizione molti anni dopo la chiusura degli stabilimenti, dal momento che l’abbandono degli impianti aveva ancora aumentato la quantità di amianto dispersa nell’aria. Inoltre la tesi della Corte secondo cui il momento consumativo sarebbe segnato dal massimo aggravamento dell’evento, è priva di riscontri normativi e del tutto immotivata. Finché l’evento è in divenire, prosegue quell’immutatio loci nella quale la stessa Corte identifica l’evento del delitto.
Se l’analisi di Luca Santa Maria è ineccepibile, va respinta l’affermazione della Corte che il Tribunale ha sbagliato nel determinare lo spostamento della consumazione del reato sino alla cessazione degli effetti oggettivi dell’evento stesso (p.75): non dimentichiamo che questi “effetti oggettivi” sono 3000 morti; non stanno sentenziando della distruzione di un fienile.
Guglielmo Passacantando rileva che il momento causativo del disastro non può consistere nella cessazione della condotta (la chiusura della fabbrica), bensì al protrarsi nel tempo dell’evento di danno che, essendo certamente ricollegabile alla condotta volontaria e consapevole dell’agente (l’imputato), non può considerarsi un semplice effetto permanente di un reato già causato (DPC 11/12/14).
Altra affermazione incredibile della Corte è che il disastro innominato si fonda sulla pericolosità, la quale è “soltanto un giudizio quantitativo di probabilità o possibilità che ad un fatto ne segua un altro” e non può protrarsi oltre la cessazione del pericolo (pp.76-77), probabilmente identificandola nella chiusura della fabbrica, “perché non si deve confondere il pericolo con gli effetti che ne sono derivati”. Forse ai magistrati della Cassazione sarebbe stata utile una visita guidata a Casale e agli archivi dell’AFeVA: la verità sta nella vita non nelle carte. Disse Molière ai notabili della sua epoca: “Avete fatto della legge morale un elastico, che ciascuno tira dove vuole” (dall’omonimo film di Ariane Mnouchkine del 1978).
Un’altra affermazione mi lascia perplesso: la mancata bonifica dei siti non è una condotta omissiva, perché tale obbligo non esiste, e trasformerebbe un reato istantaneo in un reato permanente (p.78). Qui intravedo uno strano sillogismo: 1. La mancata bonifica ha provocato altri morti 2. L’imputato non era obbligato alla bonifica 3. L’imputato non è responsabile dei morti.
Segue un implicito rimprovero ai Tribunali di Torino di non aver contestato all’imputato anzichè l’art.434 i reati di lesioni e omicidi. Quello commesso a Casale e in altri luoghi è un reato di disastro ambientale doloso e permanente, e la contestazione dei morti è presente laddove si citano le indagini epidemiologiche: che quella in corso a Casale sia un’epidemia provocata dall’inalazione delle polveri di amianto è un dato statistico, la cui enorme evidenza non richiede dimostrazione; basti pensare alla spaventosa escalation, che coinvolge tuttora la popolazione. Ma immaginiamo invece un altro processo, per omicidio colposo, dove i periti del P.M., dei difensori, delle parti civili si accapigliano su ogni parola scritta nel referto di ciascuna vittima dell’INAIL, contestandone la validità. Quando sarebbe terminato? Mai. Caselli constata che quattro anni per i tre gradi di giudizio del processo Eternit sono un miracolo di brevità. Inoltre il mesotelioma pleurico è un tumore la cui causalità è molto complessa: si veda a proposito l’esaustiva indagine condotta dalla Fondazione Maugeri di Pavia nel 1997 “Mesotelioma: aspetti medico-legali”, a cui rimando. Tale complessa causalità è una manna per gli avvocati della difesa.
L’ultima parte della sentenza è dedicata soprattutto alla immutatio loci e all’epidemia, tuttora in corso, da essa provocata: in effetti questo è il punto debole che inficia, secondo l’analisi di Luca Santa Maria sopra riassunta, la prescrizione. Con l’epidemia i morti, cacciati, ritornano. La Corte accusa il Tribunale di aver confuso reato permanente, reato istantaneo a condotta perdurante, evento differito, effetti permanenti, perdurare della condotta, spostamento della consumazione del reato sino alla cessazione degli effetti, per cui il reato si consuma “quando la persona offesa guarisce”(p.75, con tagli miei): nove tecnicismi in un solo periodo per arrivare a una conclusione tanto volutamente paradossale quanto macabra. Secondo la Corte l’immutatio loci consiste in una probabilità statistica di proiezione di rischio per la pubblica incolumità (p.83). Non di rischio si tratta: tutti coloro a cui viene diagnosticato il mesotelioma sanno che entro breve tempo moriranno.

COSA AVREBBE POTUTO FARE LA CORTE DI CASSAZIONE (OPZIONI)
1. Dichiarare la prescrizione inapplicabile a un disastro ambientale di queste proporzioni e conseguenze.
2. Spostare la data dell’inizio della prescrizione al comprovato ultimo decesso.
3. Disporre il rinvio al Tribunale, con una o più motivazioni a scelta; per esempio chiedendo di trasformare il reato di immutatio loci e quindi di epidemia, in omicidio colposo plurimo, per il quale l’art.589 c.p. prescrive la procedibilità d’ufficio.
4. Rinviare la decifrazione dell’art.434 alle Sezioni Riunite della Corte di Cassazione.
5. Poiché i reati ambientali sono un tema di enorme complessità, e le Sezioni della stessa Corte di Cassazione si sono pronunciate in processi simili in modo diverso, chiedere l’intervento della Corte Costituzionale.
6. La Corte giustamente lamenta la lentezza della risposta politica sui reati ambientali e l’inadeguatezza delle norme in vigore. Dato che la nuova auspicata legge sui reati ambientali (predisposta dal governo dell’Ulivo nel 1999 e bloccata dai governi successivi) era in discussione al Senato, in prima lettura il 26/2/14, approvata definitivamente il 28/5/15 (G.U.), la Corte stessa avrebbe potuto attenersi al progetto legge e rinviare la sentenza (pronunciata il 19/11/14) di sei mesi. Va sottolineato che la nuova legge raddoppia i tempi di prescrizione, aggrava le pene, impone la bonifica, la cui omissione diventa un ulteriore reato, introduce il reato di evento al posto del reato innominato, prevede la confisca dei beni, punisce l’impedimento del controllo, diventa reato l’offesa alla pubblica incolumità, prevede aggravanti ecc. In sostanza, il contrario di quanto ha stabilito la Corte. In uno stato democratico le leggi sono tuttora fatte dal Parlamento e non dalla Magistratura.
Concludo col lapidario giudizio di Bruno Pesce: “I giudici della Cassazione non hanno voluto tenere conto che il disastro è ancora in essere nelle cause e negli effetti”, da cui ho tratto il filo logico del mio articolo.
Inquietante il rilievo del giudice Andrea Natale: ” C’è però un passaggio della Requisitoria del Procuratore Generale che non avremmo voluto leggere:” per il disastro innominato occorre che intervenga il legislatore altrimenti ci troveremmo molti imprenditori in Corte d’Assise” (p.19).
Ma quest’ultimo passaggio si rivela infelice per due motivi: 1. perché sembra tradire un risultato da perseguire con l’interpretazione della legge: la protezione di un certo tipo di imputato – 2. perché nessuna norma garantisce l’immunità agli imprenditori rispetto alle Corti di Assise (Questione Giustizia, fascicolo 3 2015).
Elvio Bombonato – Alessandria