Il Superstite della settimana scorsa, particolarmente apprezzato dato l’argomento (i Pierini), ha provocato una piccola reazione a catena. Intanto in molti mi avete chiesto di redigere, alla mia maniera, una piccola storia dei caffè o dei ritrovi alessandrini che resistono ancora nella memoria collettiva per i motivi più disparati. Poi, a ruota, la constatazione, non così ovvia, che un cospicuo frammento di storia locale possa anche essere raccontata così, andando cioè a rivisitare luoghi d’intrattenimento e ricordi collegati che il tempo malefico ha solo sbiadito, ma non cancellato.
L’operazione è parzialmente possibile perché alcuni locali sono ancora ben vivi e vegeti. E, insomma, non sono certissimo che una certa tipologia di rievocazione debba essere poi gradita da gestori che magari non sono più gli stessi di un tempo. Tagliando la testa al toro, posso però tentare un abbozzo di storia personale dei “miei” bar.
Cominciando dal primo in assoluto, all’interno del quale ho deposto il mio timido piede, credo, nel 1964. Il Bar Torrefazione Perù, rione Pista, Viale Medaglie d’Oro. Stava dove oggi, al n°40, c’è la sede di Telethon. Di fianco si trovava una panetteria, e in primavera e in estate ci si poteva sedere ai tavolini all’aperto, sotto le piante. Un’apprezzabile oasi ecologica dato che allora di macchine ne circolavano ancora poche. Vorrei subito precisare che inserisco il Bar Perù in cima alla lista in quanto trattasi del primo bar frequentato “da solo”, senza l’accompagnamento parentale. Altrimenti dovrei andare ancora più indietro nel tempo perché negli anni ’50 mio padre mi trascinava al Bar Fermata, all’incrocio tra via Vochieri e via Casale (domenica pomeriggio per discutere di calcio) o al Bar Paulista in via Treviso una certa sera alla settimana per vedere in TV 77 Sunset Strip. Ma non ero autonomo e non li conteggio.
Il Perù, che presumo dovesse il suo nome alla zona di provenienza dell’ottimo caffè che vi si vendeva e si beveva, vantava due magnifici gestori, Gino Podestà e Teresio Baroni, con relative consorti. Magnifici, perché? Erano musicisti, e non da poco. Gino, eccellente chitarrista a pizzico e Teresio apprezzatissimo cantante melodico sul quale occorre una necessaria digressione: lui, in arte Nanni Baroni (nella foto), aveva calcato i palchi della provincia sin dal 1945. Il volume Noi e la musica dell’indomita coppia Boccassi/Rangone ci informa che Nanni aveva iniziato a fine guerra con il complesso Jack Buton una lunga attività di solista con le orchestre dell’Armoniosa di Giacomo Bottino e poi con Piero e Ugo Cassolino, una carriera che si sarebbe conclusa alle soglie degli anni ’60, credo in coincidenza con l’apertura del bar. Il segnalare la forte radice melodica di Gino e Teresio – quella dei Claudio Villa, Teddy Reno, Togliani, Taioli, etc…- ha un suo perché: la giovane clientela che frequentava il Perù sbavava per Beatles e Rolling Stones, già si agghindava con giacchette striminzite e tentativi di capelli a caschetto, e intonava ogni dieci minuti Twist and Shout facendo fremere Teresio dalla rabbia. Quando a Baroni però partiva l’ugola con Signorinella pallida, si doveva tacere in religioso silenzio, pena una randellata sulle gengive. Nonostante lo scontro culturale, circolavano amicizia, rispetto e buona educazione.
E, appunto, la clientela? Io me li ricordo bene e penso di poterli qui citare per come li conoscevo: Giovanni Rastelli, il Messicano, Gianni Trucco, i fratelli Adorno, Walter “Tampone” Morbelli (non chiedetemi notizie sul soprannome), Jack Beltrami, Bottino, Biorci, Giorgio il Rosso (di capelli), Sergio e Romano Vettori, Renato Galliano, Marco Tacconcio, Lo Smilzo, Gastone, Marco Ferretti, Ugo il lattaio, Adriano il tabaccaio, Pinuccio, Ludovico Bellone, Ghera, Pino Guasasco, Dario Biraghi, Furio Gandini e persino un giovanissimo Giorgio “Simone” Simonetti (che nella sua vita intensa e troppo breve ha frequentato TUTTI i bar dell’urbe…) che all’epoca si pettinava come Little Tony – e di sicuro mi sarò dimenticato di qualcuno.
Ci sarebbero da raccontare mille aneddoti, santi numi, o scriverci un libro perché la memoria ce l’ho ancora buona. Quasi tutti coniugati sul leit-motiv dell’irruzione beat nell’universo musicale ultra-melodico del delizioso duo Baroni/Podestà. Pensate che in quell’era si fumava tutti come turchi e, per non ammorbare oltre il dovuto lo spazio di vendita della torrefazione, si migrava nella sala del biliardo dove ben presto calava una nebbia che non vedevi più una mazza dall’altra sponda. In questa stanza si giocava (poco) a boccette e, come ho detto, si fumavano perlopiù Nazionali, Nazionali Esportazione senza filtro, Alfa e Sax, una miscela in grado di stendere il prossimo anche se provvisto di bombole di ossigeno, ma soprattutto si ascoltavano programmi radiofonici come la Hit Parade di Lelio Luttazzi o la celeberrima Bandiera Gialla di Gianni Boncompagni. Una volta che partì For Your Love degli Yardbirds, alzammo il volume a manetta e Baroni piombò in sala all’urlo dialettale Sbasè ‘sa ghineira!
Tra gli episodi a loro modo indimenticabili si annovera la visione condivisa fra fronte melodico e la clientela beat del 16° Festival di Sanremo (1966), con torme di persone assiepate dinanzi a un televisore piazzato sul banco di vendita del caffè. Teresio aveva chiamato a dargli manforte un po’ di clientela anziana (c’era un tizio proprio vecchio che tutti chiamavano Fantasmatik...) in quanto si presumeva che il tifo tra le opposte fazioni sarebbe stato da stadio. Infatti quell’edizione del festival aveva timidamente aperto ai gruppi “capelloni”: sul palco si sarebbero visti i Renegades, i Ribelli, gli Yardbirds, l’Equipe 84 e Caterina Caselli, ovviamente da noi incoraggiati (si fa per dire). Pernacchie e rumoracci dalle opposte fazioni a seconda dei cantanti che apparivano, ma quando si proposero i Renegades vestiti da soldati nordisti Teresio staccò la spina e cominciò ad agitare lo steccotto.
A noi amanti del beat e delle chitarre distorte andò malissimo. Il Festival, mai come quell’anno reazionario e conservatore, fu vinto da Gigliola Cinquetti con Dio come ti amo e nessuno dei nostri beniamini ottenne un piazzamento decente – su quel palco dove si aggirava un giovanissimo Jeff Beck, solista degli Yardbirds e oggi uno dei monster mondiali della chitarra elettrica, era stata silurata persino una canzone che sarebbe divenuta immortale, ovvero Il ragazzo della Via Gluck. Teresio e Gino ci presero per i fondelli per mesi, decretando la fine del beat e dei capelloni. Persino il buon Don Miko, che abitava in quello stesso condominio dove sorgeva il Bar Perù e che iniziava ad accennare a un minimo di lungo cappello, venne un pomeriggio salutato dal duo ultra-melodico al suon di Taiti i cavì, lanon!
Fantastici quegli anni, per dirla con Capanna. Però, accidenti, me ne ricordo tante altre di storie sul Bar Perù. Quindi ci torniamo tra sette giorni.
Grazie a Ugo Boccassi per la foto di archivio di Nanni Baroni.