Da 34 anni Geppi Ferrando osserva Alessandria, e gli alessandrini, da una prospettiva forse parziale, ma anche privilegiata. La libreria Gutenberg di via Caniggia è, dall’ormai lontano 1980, un punto di riferimento per chi ama non solo comprare e leggere libri, ma anche incontrarsi, discutere, magari anche litigare parlando di letteratura, o di politica.
Quando arriviamo, di primo pomeriggio, Ferrando ha tra le labbra l’immancabile sigaro, e sta chiacchierando sull’uscio della libreria. “Di libri se ne vendono sempre meno, ma la voglia di fare quattro chiacchiere tra amici, anche se sempre più sconfortati, c’è ancora”, sorride. E un ricordo commosso va immediatamente a Enrico “Ciccio” Scatassi, mancato improvvisamente pochi giorni fa: “non solo un frequentatore abituale della Gutenberg, ma un amico fraterno: quando ho saputo della sua morte mi sono sentito piegato, spezzato. Non mi faccia aggiungere altro”.
Ferrando ci fa accomodare nel piccolo corridoio-ufficio, che ricorda quello di un altro amico (nostro e di Geppi), Danilo Arona. Glielo diciamo, e Ferrando precisa: “Ho tre anni più di lui, ma con Danilo siamo amici dai tempi del Plana (per i non alessandrini: il liceo classico cittadino, ndr): avevo una fidanzata che stava nella sua classe, ci siamo conosciuti così”. Di Alessandria Geppi Ferrando sa praticamente tutto, anche se comprensibilmente si concede con prudenza, e mandrogna diffidenza. Eppure alcune ‘chicche’ dalla conversazione emergono: e altre speriamo di poterle ‘ottenere’, e raccontare, in futuro.
Dottor Ferrando, lei è uno dei librai ‘storici’ di Alessandria: il settore oggi è davvero così mal messo come si dice?
Purtroppo sì: è la pura verità, senza bisogno di piangersi addosso all’alessandrina. Prendiamo la crisi generale dei consumi, più quella specifica dell’economia cittadina, aggiungiamoci la scarsa propensione degli italiani alla lettura, ma anche naturalmente la diversificazione dei canali distributivi, per cui oggi certi libri (non tutti, certamente) li trovi anche al supermercato: il risultato finale è che campare facendo il libraio a tempo pieno diventa sempre più una chimera. Io ho 67 anni: posso permettermi il lusso di farlo perché mi piace, e finchè mi va.
Quando ha cominciato la situazione era diversa?
Sì, era diversa, e io avevo naturalmente l’entusiasmo e la passione dei trent’anni. Laureato in giurisprudenza, capii presto che l’avvocatura non era la mia strada, e mi feci sedurre dal fascino dei libri. Non che aspirassi a diventare ricco con una libreria, ma all’epoca ci potevi vivere bene, e soprattutto l’ambizione era quella di partecipare ad un progetto che era culturale, ma anche politico in senso lato, come possibilità di incidere sulla vita collettiva. 35 anni fa le librerie alessandrine, da Fissore a Boffi per citarne due storiche, erano tutte individuali e famigliari, non c’erano le catene e i franchising. E una libreria poteva aspirare ad essere punto di riferimento di una comunità di persone che, a partire dai libri, si confrontavano anche su valori, progetti di vita, modelli di città.
Lei ha fatto politica attiva, in passato?
Sono stato socialista, impegnato e militante, e vice sindaco di Cremolino, il mio paese di origine, nell’ovadese. Ad Alessandria fui e sono molto amico dell’avvocato Simonelli, grande persona. Ma dal Psi mi sono allontanato nel corso degli anni Ottanta: non mi ci riconoscevo più, semplicemente. Per qualche anno ho fatto attività nei radicali. Poi basta. Del resto, da più di vent’anni la politica in questo Paese, e città, non offre più nulla di interessante.
Che rapporto hanno gli alessandrini con i libri?
Lo stesso che hanno mediamente gli italiani temo: si legge poco, a parte un’esigua minoranza di lettori militanti e affezionati. E talora si legge anche male: nel senso che si privilegiano libri inutili, magari di ‘non scrittori’ che non hanno nulla da dire, ma sono noti al grande pubblico, per cui gli editori organizzazione operazioni di marketing più o meno riuscite. Per carità, ci sta tutto quando si deve vendere, soprattutto per sopravvivere dati i tempi. Ma da addetto ai lavori qualche perplessità ti viene.
Una persona come lei, che vive in mezzo ai libri e indubbiamente li ama, quanti libri legge all’anno?
(sorride, ndr) Diciamo che ne ‘annuso’almeno 400: ossia li sfoglio, ne leggo dei brani, so cosa sto vendendo. Libri letti in maniera completa, e con la calma necessaria, molti meno, sempre meno. Perché la vita che facciamo, tutti quanti, è refrattaria alla pausa di riflessione, e alla tranquillità indispensabile per una lettura vera, profonda.
Ad Alessandria gli scrittori non mancano: qualcuno è ‘migrato’ e si è magari affermato altrove, ma altri operano qui, a casa nostra. Gli alessandrini come vivono il rapporto con i ‘loro’ scrittori?
Come vivono tutto il resto: con vaga ed epidermica curiosità. Ma non vorrei apparire troppo cinico…
Tratto molto alessandrino anche questo in fondo, Geppi. Da due anni ci lamentiamo di essere nel baratro del dissesto, e hanno finito col crederci anche quelli che, tutto sommato, zoppicano “di gamba sana”. Il commercio alessandrino è davvero morto?
Se non morto, moribondo certamente. Dipende anche dai comparti, però basta girare un po’ in un pomeriggio feriale per i negozi del centro, e si può scattare una fotografia chiarissima della situazione. Ora ben vengano queste nuove iniziative di rilancio primaverile, proviamoci. Ma insomma, finché il rilancio è organizzato portando in città centinaia di bancarelle di prodotti di ogni tipo, senza un vero progetto tematico o altro, si fa solo confusione. E concorrenza ai negozi tradizionali, anziché aiutarli.
Geppi Ferrando ama dare consigli di lettura ai suoi clienti? E quale libro consiglia ultimamente?
Sì, mi piace parlare di libri con i clienti, naturalmente se loro ne hanno voglia. Del resto il senso di una libreria tradizionale come la nostra (Ferrando ha un socio, Gianluca Ghnò, già noto ai lettori di CorriereAl, e a cui dobbiamo le foto a corredo di questa intervista, ndr) è proprio il confronto tra le persone, la discussione. Negli ultimi mesi, diciamo dall’estate 2013, quando ne ho scoperto l’esistenza, ho consigliato a tanti di leggere una prova narrativa secondo me sorprendente: Quel caseggiato di via Amalasunta al n. 1, di Tullio Savi. E le svelo un aneddoto: io conobbi Savi, che oggi ha 82 anni e vive in Toscana, tantissimo tempo fa, quando faceva l’ingegnere alla Olivetti, ai tempi di Adriano. Ed era, Savi, il vero prototipo dell’intellettuale in fabbrica, molto legato anche al mondo torinese della riscoperta della canzone popolare, con progetti importanti come il Cantacronache.
Per cui mi ha meravigliato scoprire che, alla soglia degli ottant’anni, Savi avesse deciso di scrivere il suo primo romanzo, e fosse riuscito a raccontare una storia così avvincente. In pochi mesi, segnalandolo ai miei clienti, ne ho venduto circa 170 copie, che per un libro ‘sommerso’, con zero promozione e pubblicità, non sono poche. Ma soprattutto è stata l’occasione per rintracciare Savi al telefono, e fare una lunga chiacchierata amarcord: che credo abbia fatto piacere ad entrambi.
Ettore Grassano