8 settembre 1973, l’evento era stato annunciato dalla stampa locale con l’enfasi strapaesana che si usava in quelle circostanze: “Alle ore 21 presso il nuovo ritrovo l’Murun di Via Genova a Spinetta Marengo si danza con l’eccezionale partecipazione del Complesso d’attrazione BANCO DEL MUTUO SOCCORSO”. In quel “si danza” si nascondeva il tragicomico equivoco che quella sera avrebbe generato più di un guaio. “Con un nome così, avevano pensato gli organizzatori della festa patronale, questi non possono che fare del liscio…” E chi propose la serata non si fece certo molti scrupoli a spiegare come stessero davvero le cose.
Il Banco si presentò nel pomeriggio, con un seguito di camion e Transit che peraltro ricordava più un circo che un’orchestra da balera. Avevo 16 anni e del gruppo avevo leggiucchiato qualcosa su quella sorta di vangelo che, per noi ragazzotti, era allora Ciao 2001. Il primo disco del Banco, intitolato Banco del Mutuo Soccorso, era andato molto bene; nessuno immaginava che la stessa busta del vinile – un cartonato a forma di salvadanaio di coccio – sarebbe diventata negli anni oggetto di culto.
Il secondo lavoro – Darwin – era in giro da qualche mese. Il gruppo si muoveva allora in un magma indefinito di formazioni pop dalla connotazione incerta, decine di nomi (Rovescio della medaglia, Rocki’s Filij, Balletto di bronzo) e sigle che andavano e venivano nei raduni e nei festival che, giorno dopo giorno, spuntavano come funghi.
Spinetta Marengo era nel settempre 1973 un paesone agricolo dove la lingua era il dialetto e il centro del mondo era la Montedison, anche se tutti la chiamavano Montecatini. Le cronache di quei giorni riportavano allarmate notizie sui rischi ambientali legati alla produzione della fabbrica che, di fatto, dava da mangiare a quasi tutto il sobborgo.
Lo scenario spinettese di quegli anni è facile da raccontare: piccole botteghe in cui comprare stringhe per scarpe e salame cotto, gente in giro rigorosamente in bici, il mulino al centro del paese a confermare che la vicinanza alla campagna tutto intorno non era solo un connotato geografico. Gru ovunque con tante villette in costruzione; un benessere non esibito si stava diffondendo nel sobborgo. E poi officine, laboratori e fabbriche di turaccioli e nel Consiglio di Quartiere tutti i partiti rappresentati, e pure il parroco.
Le tradizioni, ovviamente, restavano e quella della “festa del paese” era una delle più radicate e rispettate. L’immigrazione di tante famiglie venete, al seguito dei capifamiglia che lavoravano in campagna, partecipava convinta e orgogliosa a tutte le iniziative.
Il giorno del concerto era un giorno feriale, giornata luminosa di un settembre in cui, nel mio ricordo di adolescente, la nebbia del mattino lasciava spazio, nel pomeriggio, a un sole bruciante e a luci che preparavano l’autunno. Ovunque, sui muri, grandi manifesti (le plance si chiamavano allora) col salvadanaio e una fascia di carta incollata ad hoc, che indicava che a Spinetta sarebbe arrivata quell’attrazione.
Per molti come me quello del Banco più che un concerto fu una folgorazione; da quelle parti erano passati i Ricchi e Poveri e i Dik Dik e qualche anno prima le carovane vocianti del Cantagiro: ma il Banco era un’entità ancora tutta da decifrare. Verso le 7 di quella sera, all’ingresso del Murun, nel vialetto che conduceva alla balera, gli organizzatori sistemarono uno tavolino tondo di lamiera, con un cartoncino e la scritta INGRESSO £. 1.500. Lungo via Genova, arteria principale di Spinetta, gironzolavano già orde di capelloni in uniforme: salopettes, jeans a zampa di elefante, borse di corda. Nessuno immaginava quello che sarebbe successo di lì a poco.
Non so come arrivai alla balera. I ritmi di casa mia imponevano la cena alle 20 e dopo, ma solo dopo, libera uscita. Alle 21, davanti al Murun, c’era il mondo e una tensione che non era comprensibile, almeno a me. Per la prima volta, in quell’occasione, sentii pronunciare la parola “autoriduzione”. Probabilmente intimoriti da quella moltitudine inquietante, e poi inquieta, di frikkettoni, gli spinettesi, e non solo loro, si erano tenuti lontani dal Murun, preferendo la proposta dell’altra balera del paese, il Piccadilly, che quella sera ospitava il Veglionissimo con Angeleri e il suo complesso, reduci dai fasti della trasmissione “Estate insieme” della “Rai-TV” come si usava dire allora. Niente liscio quella sera, dunque, al Murun, ma lo spettacolo non sarebbe mancato.
Per il clima di quei mesi e poi degli anni a venire, pieni di raduni pop e festival gratuiti, stabilire un prezzo d’ingresso era ritenuto provocatorio. Agli organizzatori della serata il concetto divenne chiaro, quando in molti cercarono di entrare senza pagare. Non ricordo se fossero volati tavoli e sedie ma l’aria si scaldò immediatamente, Al di là delle botte che ci furono, e ci furono, la serata era diventata fosca, tesa, lontana dall’idea della festa. Passarono le ore e alla fine, dopo scontri, discussioni e mediazioni, si suono’.
Era tardi, molto tardi per i miei ritmi da sedicenne ma la voglia di rimanere lì era più forte di tutto. Solo a vederlo, il palco del Murun valeva già il prezzo del biglietto (!): a far contrasto alla quinta di sfondo, fatta di cannette e vimini che facevano tanto balera di campagna, svettava una montagna di amplificatori e casse acustiche con la placchetta di metallo luccicante: Davoli, Lombardi, Montarbo, Marshall, nomi epici allora…e anche oggi; e poi la strumentazione. Le due tastiere ai lati, sulle sfondo la batteria di Calderoni con il un gong dietro, perchè, a quei tempi, una batteria non era tale se non aveva il gong. Buio all’improvviso e parte RIP. Francesco Di Giacomo arriva, afferra il microfono, china l’asta deciso e attacca. “Cavalli, corpi e lance rotte, si tingono di roooosso….” E poi La danza dei grandi rettili, Cento mani, cento occhi. Ogni musicista ( ma questi sono particolari che affinai nel tempo, da autentico fanatico del Banco) aveva mimiche e movimenti tutti suoi. Pier Luigi Calderoni si muoveva veloce, quasi frenetico, con la batteria che emetteva suoni, a volte secchi, a volte cupi, mentre Gianni Nocenzi sembrava assente, occhi grandi e sguardo fisso, con quel suono di piano che era il suono caratteristico del Banco. Il fratello di Gianni, Vittorio, aveva in mano il gruppo: le sue tastiere, dai nomi oggi dimenticati (mellotron, moog) aprivano squarci di sonorità che io non avevo mai sentito con improvvisazioni che ti prendevano prima la pancia delle orecchie. Ai lati di Big (come venne chiamato per un po’ di tempo Francesco Di Giacomo) stavano il bassista Renato D’Angelo, una tracolla lunghissima e lo strumento (quella sera un Fender blu) quasi orizzontale, con le mani che sembrava quasi non lo raggiungessero; Marcello Todaro, magro, quasi ossuto, dondolava e teneva il tempo, coi suoni nervosi e tonanti di una Gibson nera, lucida come uno specchio. E poi c’era Francesco Di Giacomo: grande, grosso e delicato, quasi fine. Una salopette a righe, la voce ad aprire la notte.
Quanto durò il concerto? Non ricordo. Non me persi un attimo, anche se sapevo che a quell’ora avrei dovuto essere a casa. Ed eravamo in parecchi, noi ragazzotti di Spinetta, a essere fuori posto in quella balera piena di capelloni e di fumo dall’odore un po’ speziato. Molti di noi avevano fatto l’incontro della vita; così per caso, a pochi metri da casa. Da quella sera la musica era una cosa diversa; si erano aperte porte nuove e la curiosità di vedere cosa c’era dall’altra parte sarebbe stata una costante della nostra vita. Io so solo che il giorno dopo, andai in città, nell’unico negozio di dischi che conoscevo e, quando fu il mio turno, alla commessa dissi quasi trionfante, sicuramente orgoglioso “Vorrei Darwin del Banco del Mutuo Soccorso!” Posso dirvi che ora sono un po’ malinconico?