di Danilo Arona
Premetto che il mio non è un intervento politico anche se appartengo a una generazione che tra i suoi slogan sentenziava che “alla fine tutto è politica”. In questa rubrica, a mia completa discrezione, tento di parlare in modo generico ma non superficiale, della visione, spaziando qua e là e a volte anche “svaccando”, per capirci, con cognizione di causa. Scrivere per questo blog e per l’amico Ettore Grassano mi mantiene – spero- in esercizio e mi regala un modo per continuare a esercitare quel che ho fatto con qualche inevitabile e dolorosa sosta da cinquant’anni: scrivere. Scrivere delle discipline che mi piacciono, il cinema in primo luogo, senza disdegnare tutto il resto che fa capo all’elaborazione concettuale di quel che si percepisce. In TV o per strada. Ah, ovviamente anche di letteratura contemporanea, perché quanto mai contigua alla visione.
La prendo da molto lontano, ovvero dal filosofo e scrittore anglo-irlandese Edmund Burke (1730-1797) che nei suoi scritti ci ha tramandato il concetto del delightful horror, l’orrendo che affascina. Come ben argomenta Anna Illiano[1], per Burke il Sublime è quel sentimento di impotenza e di paura che scaturisce dall’osservazione di tutto ciò che può suscitare idee di dolore, pericolo, morte. Tutto ciò che è terribile, ma che allo stesso tempo affascina…. un discorso complesso e non per tutti che affonda le radici nel profondo e complicato mondo della psiche umana e che è proprio tale data l’insuperabile distanza che separa il fenomeno dall’uomo, che si sente piccolo e insignificante e che ovviamente va rapportato all’epoca del filosofo nella quale potenti e dirompenti manifestazioni della natura scatenata potevano funzionare da esempi calzanti.
Può funzionare ancora Burke in epoca contemporanea? Direi purtroppo di sì, sottolineando una data: 11 settembre 2001. Nessuno, credo può dimenticare quanto abbiamo visto in diretta quel giorno in cui il terrorismo islamico dettò legge sui media. Da allora è stata un’escalation, di vari, crudeli attentati che il pubblico, inorridito quanto affascinato, ha ingurgitato dal tubo catodico a ore pasti. Il cinema ha fatto a gara nell’assomigliare il più possibile a questo tipo di realtà. Senza riuscirci, secondo me. E forse è un bene, ma vorrei continuare a parlare di estetica e non di morale. Ognuno ha la propria e chi sono io per dettare la mia?
Ma intanto è accaduto qualcosa in grado di eclissare l’orrore dell’11 settembre 2001. Ovvero la strage dei civili israeliani, e soprattutto dei giovani presenti al tragicamente famoso rave del 7 ottobre scorso, ripreso in tutta la sua crudezza grazie innanzitutto alle body cam degli assalitori, disponibile in rete per chi ha stomaco forte – io lo avevo un po’ di tempo fa, ma da qualche tempo ho abdicato.
Cruentissime uccisioni esibite senza il pudore che la pietà imporrebbe a un pubblico inorridito ma proprio per questo affascinato. Il “fascino dell’incidente stradale” come ebbe a dichiarare Stephen King in Danse Macabre: la visualizzazione della morte al lavoro e il voyeurismo più esasperato su particolari che non si dovrebbero mai vedere. Ma nel caso del 7 ottobre si va certamente oltre. La morte violenta esibita ciecamente e i gesti più selvaggi vengono proposti come performance dell’irreale, non solo ai governi e ai vertici militari, ma anche al pubblico inorridito e affascinato che guarda la televisione e naviga su YouTube. Soprattutto l’oltraggio più aberrante della giovinezza che nulla c’entra con le colpe “politiche” degli “adulti”- non riesco neppure a immaginare la sofferenza della povera Shani Louk per cui la barbarie ha superato tutti i limiti della pietà.
Il silenzio su questo caso da parte dei detentori della comunicazione la dice lunga. Nessun approfondimento. Quasi nessun commento. In verità nessuno, tra addetti ai lavori e spettatori profani, possiede strumenti adeguati. In verità hanno parlato le “immagini assassine”.
Ma un’immagine può uccidere? Il libro di Maria José Mondzain, L’immagine che uccide, lascia aperto il campo alla possibilità, non dimenticando che le immagini, certe immagini, possono sul serio “uccidere dentro”. Come ha ricordato Tiziana Serena[2], «la vera violenza dell’immagine inizia lì dove la società lascia inermi gli spettatori di fronte alla “voracità delle visibilità”. E da qui dovrebbe iniziare la necessaria presa di coscienza: la necessità di costruire una cultura dello sguardo, uno sguardo che sappia dotarsi della “passione di vedere” e disciplinarne le coordinate. Sostiene la Mondzain che l’immagine oggi “esige una nuova e singolare gestione della parola tra coloro che incrociano lo sguardo nella condivisione delle immagini”. Ma la parola, per quel che riguarda l’orrore del 7 ottobre, ancora latita.
Nella loro delirante e rivoltante gestione delle immagini, gli assassini di Hamas sembrano avere aggiornato i meccanismi di penetrazione nell’inconscio alla Edmund Burke. Ovviamente non si tratta di cultura dello sguardo ma di una rozza antitesi alla civiltà del vedere, un’arma disgustosa di propaganda sui cui terreni già si era mossa l’ISIS con le decapitazioni in diretta. Il dato singolare è che, dopo l’immersione nell’orrore che ci lascia terrorizzati e spaventosamente impotenti, Burke riesca ancora a funzionare come modello d’indagine. Grande e agghiacciante paradosso dell’invasione globale delle immagini.
[1] https://www.latestatamagazine.it/2022/04/sublime-lorrendo-che-affascina/
[2] https://www.lindiceonline.com/arti/fotografia/marie-jose-mondzain-limmagine-uccide/