di Danilo Arona
Si può dire? Questo giorno che incombe di Antonella Lattanzi è un fottuto capolavoro. Bene, l’ho detto, anzi l’ho scritto. Da anni un libro di narrativa non mi buttava dentro le sue pagine con tanta forza e convinzione. Tesi sostenuta da un lettore maschio di fronte a un io narrante femmina non è faccenda poi così banale.
Che faccio? Lo racconto? No, per carità, solo un cenno doveroso alla partenza della trama raccontata, appunto, da una “lei”, proiezione dell’autrice. Una coppia, due bambine. Si trasferiscono da Milano a Roma per motivazioni lavorative di lui. Casa nuova, condominio elegante nel verde chiamato Il Giardino di Roma. Ci sta il portiere ammogliato che agli irriducibili come me ne ricorda un altro sfortunatissimo legato a un irrisolto caso di cronaca nera, ci sono condomini sin troppo invadenti e sospetti un po’ alla Comunidad di Alex de la Iglesia e ci sono soprattutto le incrinature nel reale percepito dalla donna che si chiama Francesca: incendi quasi soprannaturali, dettagli perturbanti, un misterioso vicino di pianerottolo che suona il violoncello ignorato dai condomini, frasi che fanno capire sì e no, più no che sì… Insomma, pare un mistery coi fiocchi. Poi un brutto giorno scompare in modalità a dir poco assurde una bambina del condominio e il colore giallo diventa nerissimo.
Ovvio che mi fermo. Ma qualcosa si può ancora dire. Se in un prodotto di fiction, fuori dai canoni come questo, riescono a riverberare fatti di cronaca non strumentale, siamo al cospetto dell’intuizione geniale. Certo che viene in mente la povera Denise Pipitone, per quanto decontestualizzata dall’ambientazione del romanzo, ma, come la stessa autrice ha dichiarato, l’episodio ricostruito ha le sue radici in un fatto di cronaca realmente accaduto negli anni ’80 nel casermome dove la Lattanzi è cresciuta. Ma è bene cederle la parola:
«Sono arrivata a Japigia che avevo otto mesi. Nella parte peggiore di Japigia. Era il luglio ’80. Nel condominio dove siamo andati ad abitare perché ai miei era piaciuta quella casa così luminosa — e ci credo, non c’era niente intorno, niente per chilometri — avevano appena ucciso una bambina. Io l’ho saputo 25 anni dopo. Avevano appena ucciso una bambina nello scantinato di una delle palazzine del cortile dove stavamo andando ad abitare noi. Forse proprio la nostra. Non si sapeva chi era stato. Si pensava l’uomo delle pulizie. Venne fuori, molto dopo, che era stato il nonno. Io e mia sorella abbiamo passato infanzia e adolescenza in quel cortile, tricicli, pattini, nascondino, campana, molla, walkman, senza sapere cos’era successo proprio lì. E all’inizio senza che nessuno sapesse nemmeno se “l’assassino si nasconde tra di noi”. Gli anni ’80 e ’90 a Japigia sono stati folli.»[1]
Ed erano gli anni in cui i genitori di Antonella si raccomandavano, tanto a lei che alla sorella, di non sparire dalla loro vista e di restare sempre nei paraggi. L’assassino si nascondeva proprio tra loro.
Più di un critico ha richiamato nomi illustri per sottolineare la suggestione provocata dalla lettura di Questo giorno che incombe (anche un titolo magnifico): Shirley Jackson, il Roman Polanski de L’inquilino del terzo piano), Kafka, Dostoevskij, persino Stephen King e Ian McEwan. Citazioni più che pertinenti, ma sia ben chiaro che Antonella Lattanzi non copia da nessuno. Non ne ha bisogno e passa indenne attraverso i generi ponendoci un antico quesito destinato per fortuna a restare senza risposta: in quale categoria narrativa possiamo inscrivere il romanzo di cui ci stiamo occupando? Giallo, noir, thriller, mainstream, altro? Ma che importa… Quello di Lattanzi è un linguaggio assoluto, travolgente, con dirompenti capovolgimenti di plot che ti lasciano in sospensione sino all’ultima pagina. Senza mettere in conto lo straordinario e autentico ritratto di donna che viene fuori dalla dinamica e trascinante evoluzione del personaggio di Francesca.
Citando Domenico Starnone: «Un giallo avvincente, rispettoso delle regole di genere. Ed è altro. C’è un’esperienza vera ben saldata al finto. C’è una donna e madre infelice con una voce memorabile, sempre vicina a incrinarsi. C’è un coro di gente comune che esegue uno spartito di crescente ferocia. C’è una storia d’amore snervante, con la più dilazionata delle congiunzioni carnali. C’è un appartamento parlante che inquieta protagonista e lettore. E, sempre, una scrittura potente. Il risultato è una realissima invenzione dell’oggi.»
Tutto giustissimo, ma ripetendomi, non innalzerei steccati di genere. Questo giorno che incombe dove incombere oltre le definizioni.
[1] La Repubblica, 26/02/2016, La mia Japigia con l’incubo Parisi di Antonella Lattanzi.