La spazzatura per l’Africa che passa da Alessandria e Genova [Centosessantacaratteri]

di Enrico Sozzetti

I recenti sequestri confermano la crescita dei traffici illegali. I danni ambientali ed economici. E i rischi per i prodotti ‘di ritorno‘

Quella scoperta ad Alessandria non è che una delle tante punte dell’iceberg del traffico di rifiuti verso l’Africa. Un flusso che sta crescendo negli ultimi anni e che conferma come le questioni ambientali ed economiche siano strettamente connesse alle frodi fiscali, in Italia come nel continente africano, vittima della criminalità e di personaggi senza scrupoli.

Nell’arco di alcuni mesi l’Agenzia Dogane e Monopoli (Adm) di Alessandria ha sequestrato 54.500 chili di rifiuti pericolosi e ha trasmesso alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Alessandria cinque distinte informative di reato a carico di nove persone (una italiana, sei ghanesi, una egiziana e una nigeriana). Le verifiche hanno permesso di accertare che all’interno dei container controllati fossero presenti non solo le regolari merci indicate nelle dichiarazioni doganali, ma anche rifiuti pericolosi. Sono stati rinvenuti, occultati fra parti di ricambio di varia natura (volanti, cruscotti, portiere, paraurti, sedili, molle, soffioni da camion), ingenti quantitativi di rifiuti derivanti dalla demolizione di veicoli (impianti frenanti, sospensioni, balestre, ammortizzatori e piantoni da sterzo). Scoperti anche motori non bonificati, pneumatici usati deformati o danneggiati e non più utilizzabili, eliche navali, oltre a rifiuti derivanti da attività industriali, come macchine industriali e idropulitrici. L’attività ha consentito di stroncare un ulteriore tentativo di esportazione illecita di rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee) non correttamente gestititi dal punto di vista ambientale: generatori, televisori, ferri da stiro e autoradio. I container sottoposti al controllo erano tutti diretti in Africa, principalmente in Ghana, Senegal e Camerun.

Un business miliardario

Quanto vale a livello nazionale questo nuovo traffico in continua crescita? Una risposta è stata fornita a giugno dal quotidiano Il Sole 24 Ore. L’articolo di Ivan Cimmarusti si apriva con queste parole: il business “solo in Italia vale venti miliardi di euro annui, poco più di un punto percentuale del Pil. La narrazione di una colossale frode, che in parte riguarda anche i paesi dell’Africa nera, due volte vittime del ciclo illecito dei rifiuti prodotti in Italia e Unione europea. Da una parte c’è il traffico di plastiche e gomme, smaltite nelle megadiscariche senza regole dell’area sub-sahariana, dall’altra la milionaria rivendita a vari governi – tra i quali Mali, Senegal, Burkina Faso e Mauritania – di moduli fotovoltaici nuovi solo sulla carta. Perché nei fatti si tratta di pannelli solari ormai esausti, dei rifiuti prelevati anche dall’Italia e rivenduti come nuovi. Un modo per le organizzazioni criminali di intascare i finanziamenti del programma multinazionale varato dalla Banca africana per lo sviluppo (in cui risultano stanziamenti dell’Unione europea)”. Siamo di fronte a una attività in crescita? Certo. E i motivi sono stati riassunti in modo efficace dal quotidiano di Confindustria. “Una tonnellata di plastiche e gomme per essere regolarmente smaltita può costare tra 200-250 euro. Seguendo la via illegale la spesa non supera 100-150 euro” scrive Ivan Cimmarusti. Poi ci sono i Raee (Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche). Sempre Il Sole 24 Ore: “Lo smaltimento di una tonnellata di pannelli fotovoltaici esausti costa 400-500 euro. Attraverso la falsificazione delle matricole e un giro di fatture per operazioni inesistenti, i pannelli sono riciclati e fatti apparire come usati, ma ancora funzionanti o anche nuovi. Così, una tonnellata non solo ha zero spese di smaltimento, ma anzi porta a guadagni fino a cinquantamila euro”.

Il problema non è solo italiano. Le organizzazioni che hanno scoperto il business e la relativa facilità di fare affari sporchi sono presenti in altre nazioni europee, come ha raccontato, per esempio, a luglio Céline Camoin sulla rivista ‘Africa’: “Circa 2.500 tonnellate di rifiuti elettrici ed elettronici inviate illegalmente in Africa da una rete di trafficanti intenzionati a lucrare sul riutilizzo di queste attrezzature scadenti e pericolose. Era questo il business della rete criminale smantellata a fine giugno alle isole Canarie, grazie a un’operazione condotta dalla Guardia Civil spagnola, in particolare dal servizio per la protezione della natura (Seprona), con il supporto di Europol e dei Carabinieri italiani. Carichi composti da rifiuti pericolosi partiti via mare con l’ausilio di documenti falsificati, a partire dal porto di Santa Cruz de Tenerife a destinazione di più Paesi africani. L’elenco fornito dagli investigatori comprende nazioni dell’Africa occidentale: Senegal, Ghana, Gambia, Togo, Benin, Guinea Conakry, Sierra Leone e principalmente Nigeria. Secondo un comunicato di Europol, il materiale illegale era composto da apparecchiature obsolete, di seconda mano e persino scarti di discariche. Tra queste, elettrodomestici, motori, pezzi di ricambio, e soprattutto attrezzature elettriche ed elettroniche. Rifiuti pericolosi, contenenti mercurio, arsenico o fosforo, e che spesso finiscono nelle mani di ragazzi per il recupero di alluminio e di rame”.

E c’è anche il sud est asiatico

L’Africa non è però l’unica destinazione. Lo confermano Giovanni Vivalda, direttore dell’Ufficio delle Dogane di Alessandria, e Paolo Scepi, coordinatore del Reparto Antifrode e Iva intracomunitaria. «Si sta registrando anche un flusso verso alcuni Paesi asiatici. La prima è stata la Cina, poi il Laos e l’area del sud est asiatico» spiegano.

Prevalentemente i materiali intercettati sono rifiuti con codici Cer (Catalogo europeo rifiuti) differenti oppure vi sono quelli dichiarati come ‘masserizie’ che in realtà non lo sono. «I danni causati da questi traffici – affermano Vivalda e Scepi – sono molteplici. Ci sono quelli ambientali, quelli economici e fiscali, ma anche quelli indiretti che colpiscono non i Paesi della destinazione finale, bensì l’Europa. In alcune nazioni quei materiali vengono infatti trasformati in modo non corretto e tornano sui nostri mercato in altre forme, con un conseguenze rischio per la salute e l’ambiente». La merce intercettata dall’Agenzia Dogane e Monopoli di Alessandria era diretta a Genova, da dove avrebbe raggiunto l’Africa. Un altro porto utilizzato per queste spedizioni è quello di La Spezia, mentre su Trieste convergono quelle verso il sud est asiatico.

Questi traffici stanno facendo i conti con una una netta crescita tendenziale nell’ultimo anno. Si registrano ad Alessandria mediamente 4/500 esportazioni al mese di merce varia verso l’Africa, provenienti da diverse zone dell’Italia e tutte passano da Genova. Ma come avvengono i controlli? «Il meccanismo – rispondono Vivalda e Scepi – è regolato informaticamente. In base a una serie di parametri sono eseguite verifiche documentali, fisiche e ricorrendo, quando è necessario, anche a degli scanner. Sul piano del controllo, i container devono transitare in appositi ‘spazi doganali’ (uno è presente a Bosco Marengo, ndr) dove si verifica la effettiva corrispondenza del contenuto ai documenti prodotti per l’esportazione». All’interno dell’Agenzia Dogane e Monopoli sono maturate professionalità specifiche perché pur in presenza di precisi e rigorosi parametri per i controlli, restano insostituibili l’intuizione e la capacità di visione d’insieme di e analisi dell’uomo. Infatti è necessario sapere ‘leggere’ quei dati per cogliere le incongruenze che spesso restano nascoste nelle pieghe di un documento burocratico apparentemente in regola.