L’ideologia della crescita

Soro Bruno 2di Bruno Soro
www.cittafutura.al.it

“Tutta la mia concezione del metodo scientifico consiste in questi tre passi: 1. Inciampiamo in qualche problema; 2. Tentiamo di risolverlo, ad esempio, proponendo qualche nuova teoria; 3. Impariamo dai nostri sbagli, specialmente da quelli che ci sono stati resi presenti nella discussione critica dei nostri tentativi di risoluzione. O, per dirla in tre parole: problemi-teorie-critiche.”

Karl Popper
[Citato in K. Popper, Il gioco della scienza, Armando Editore, Roma, 1997]

Oltre ad essere stato premiato con il Nobel per l’Economia nel 2001 (assieme a Joseph E. Stiglitz e George A. Akerlof), Michael Spence è un valente macroeconomista. Ingaggiato, tra l’altro, dalla Scuola di Dirigenza Aziendale (SDA) dell’Università Bocconi di Milano, si occupa da tempo del problema della crescita economica. Nell’intervista pubblicata su La Stampa di giovedì 16 maggio (“La Cina tira ancora. Esportate là”), egli ribadisce con forza la sua convinzione che “l’Italia è in forte sofferenza per la carenza di crescita (e che) le politiche di austerity applicate non hanno aiutato l’economia”. Alla domanda su che cosa freni l’economia italiana Spence risponde: “La debolezza della domanda di breve periodo e medio termine. Se la spesa governativa non sopperisce, i due terzi della vostra economia slegati dal commercio (sottinteso estero) non possono crescere. Ma il governo italiano deve ridurre la spesa. Poiché l’opzione della svalutazione non c’è più, per gli accordi dell’Eurozona, non vi resta che vendere prodotti nazionali alle regioni che più crescono, come la Cina”. Immagino che se avete avuto la fortuna di seguire un buon corso di Macroeconomia e di Politica economica, abbiate compreso ogni cosa. Per coloro invece che fossero sprovvisti di tali conoscenze proverò a fornire il quadro di riferimento delle affermazioni di Spence.

Iniziamo col mettere a fuoco il problema nel quale “siamo inciampati”. Tra il 1960 e il 1980 l’economia italiana è risalita, nella graduatoria delle dieci più importanti economie del mondo, dalla settima alla quinta posizione, una posizione mantenuta fino al 1990, anno in cui producevamo il 5,2% dell’intera produzione annua del globo. Poi, nei successivi vent’anni, il peso dell’economia italiana è andato progressivamente riducendosi fino al 3,1% del 2011 (il dato più recente reso disponibile dalla Banca Mondiale). In conseguenza di ciò, l’Italia è scesa fino ad occupare l’ottava posizione di quella stessa graduatoria. Nel frattempo, la Cina, che con il 4,6% del PIL mondiale, occupava nel 1960 la quarta posizione, nel corso dei successivi vent’anni scendeva al decimo posto (che manterrà fino al 1990). Poi, grazie alla impressionate crescita della sua economia, ed avendo superato il Giappone, in soli vent’anni il Paese di Mezzo è divenuto la seconda potenza economica mondiale, essendo già, con il suo miliardo e quasi quattrocento milioni di popolazione, la prima potenza demografica. Nell’ultimo mezzo secolo l’economia italiana ha fatto registrare tassi di crescita mediamente inferiori rispetto a quelli di tutte le altre nove potenze economiche e, a partire dai primi anni settanta, tassi di crescita inferiori (anche se di poco) alla media mondiale. Infine, con un tasso di crescita dello 0,7% (inferiore persino a quello dell’economia giapponese), nei primi dieci anni del nuovo Millennio l’Italia ha fatto registrare il più basso tasso di crescita in assoluto tra i Dieci Grandi e, a partire dal 1996 (da quando cioè l’EUROSTAT fornisce i dati dell’economia reale), anche rispetto ai tassi di crescita di tutti e ventisette i paesi dell’Unione Europea.

Il problema nel quale “siamo inciampati”, dunque, è reale e, soprattutto, ha origini lontane. Marcello De Cecco, uno dei più autorevoli economisti italiani, in un recentissimo studio pubblicato sulla rivista “Economia italiana”, fa risalire le origini profonde del declino della nostra economia alla prima metà degli anni sessanta, vale a dire in pieno boom economico. Pertanto, coloro che sostengono che le cause del rallentamento dell’economia italiana andrebbero imputate all’adozione dell’euro, all’inazione dei governi che si sono susseguiti, auspicando il ritorno ad una moneta nazionale, hanno una visione distorta della realtà. Quanto meno essi dovrebbero spiegare per quale motivo tutti gli altri ventisei paesi della UE (unitamente alle altre nove grandi economie, senza contare la crescita dei paesi cosiddetti «emergenti») siano cresciuti più in fretta. Nel caso poi in cui auspichino il ritorno ad una moneta nazionale, dovrebbero spiegare a quale tasso di cambio ritengono che ciò dovrebbe avvenire, dal momento che il passaggio all’euro è avvenuto in base ai tassi di cambio esistenti al 31 dicembre 1998 e nel frattempo quel tasso di cambio ha già subito una “svalutazione interna” superiore al 50% (un euro mille lire anziché poco meno di duemila, oltre all’inflazione degli ultimi dieci anni in termini di euro).

Posto in questi termini il problema, lo schema interpretativo adottato dal Nobel Michael Spence, per il quale “l’economia di ogni nazione avanzata è sostenuta per un terzo dal commercio (sottinteso estero) e per due terzi dalla domanda interna”, si rifà allo schema teorico keynesiano. Una teoria che sottintende un nesso di causalità che va dalla crescita delle singole componenti della domanda aggregata (i consumi delle famiglie, gli investimenti reali delle imprese, la spesa pubblica e le esportazioni nette) alla crescita del PIL. L’ipotesi implicita nel suo ragionamento è che tutte le componenti della domanda tranne le esportazioni non possano aumentare. La tesi della “crescita trainata dalle esportazioni”, che è stata un cavallo di battaglia, tra l’altro, di Augusto Graziani, l’economista che il 4 maggio scorso ha festeggiato il suo ottantesimo compleanno – degnamente celebrato sul sito di Micromega da un bell’articolo di Riccardo Realfonzo -, risale ai primi anni del ‘Novecento. Come dimostra il caso della Germania, il fatto che le esportazioni possano agire da traino alla crescita dell’intera economia ha un suo innegabile fondamento. La tesi di Spence è tuttavia incentrata sulla semplice scomposizione della domanda aggregata nelle sole componenti “interna” ed “estera”, quasi che la politica economica non abbia alcuna possibilità di intervenire sulle componenti “interne”, vale a dire sui consumi delle famiglie e sugli investimenti reali delle imprese. Ora, se è condivisibile il fatto che la spesa pubblica sia condizionata dai vincoli di bilancio (ma anche in questo caso occorrerebbe distinguere tra la spesa pubblica per investimenti in infrastrutture o quella nella spesa corrente), una parte rilevante della domanda interna è determinata dalla spesa delle famiglie. Questa componente, che detto per inciso ha risentito pesantemente della “svalutazione interna” seguita al cambio della moneta, dipende sensibilmente dalla (sempre più iniqua) distribuzione del reddito a vantaggio di una categoria di percettori di reddito (i “lavoratori non dipendenti” e i percettori di reddito da attività finanziarie) all’interno della quale si annida gran parte dell’evasione fiscale. E’ noto che la distribuzione del reddito influisce significativamente sulla capacità d’acquisto delle famiglie, con particolare riguardo a quelle con i redditi medi e medio bassi (il ceto medio, per intenderci) che hanno una più elevata propensione al consumo. In quest’ottica, l’attivazione di misure atte ad attenuare l’iniquità nella distribuzione del reddito favorirebbe sicuramente la ripresa dei consumi privati, stimolando nel contempo la ripresa degli investimenti reali delle imprese.

Tutt’altra cosa, ovviamente senza alcun riferimento alle tesi del Nobel Michael Spence, è la stigmatizzazione dell’«ideologia della crescita» implicita in quanti propugnano l’adozione di “riforme strutturali”, mai ben specificate. Una tesi, questa, che invertendo il nesso di causalità fa dipendere la crescita dell’economia dalla crescita “dei fattori produttivi” (capitale reale, lavoro), unitamente alla “produttività totale dei fattori” (il “Sarchiapone” di cui ci siamo occupati in un precedente scritto). Mi chiedo a quale delle due tesi i «rifondatori della sinistra italiana» si ispirino. Per quanto mi riguarda ritengo che la crisi dell’economia italiana vada imputata principalmente al concorso di tre fattori che interagiscono tra di loro: un degrado culturale in atto da più di due generazioni, la perdita del controllo sociale del territorio (che porta con sé l’attenuazione del senso di responsabilità individuale) e la disgregazione sociale seguita all’affermazione di una visione della società reaganiana e thatcheriana basata sull’individualismo. Condividendo con ciò le opinioni espresse dallo storico dei fatti economici Giulio Sapelli nel suo recentissimo libro su “Chi comanda in Italia” (Guerrini e Associati, Milano 2013) laddove, dopo aver constatato che in Italia (e non solo) non comanda più nessuno, auspica “la ricostruzione di un potere stabile” basato sulla ricostruzione di “una poliarchia dove i partiti e le rappresentanze territoriali riconquistino autorevolezza unitamente alle rappresentanze funzionali e alle loro autonomie decisionali (…) Fare questo – conclude Sapelli – implica una profonda rivoluzione culturale, una riclassificazione degli interessi e dei segmenti sociali da rappresentare”. In una prospettiva di più ampio respiro, è pertanto illusorio attendersi miracoli da misure di politica economica incentrate sia sulla domanda aggregata, sia sull’offerta dei fattori produttivi.

Stampa Stampa