L’angelo di Caporetto
Primo capitolo (seconda parte)
di Daniele Cambiaso e Rino Casazza
Bene – prosegue Alfieri – possiamo entrare allora… Propongo, signori – e si rivolge a Bentivegna ed Aderlini – di lasciare al Capitano Moretti l’onore di precederci. Prego, Capitano!».
Poi impugna con decisione la maniglia e schiude la porta massiccia.
Moretti, dopo un attimo di titubanza, s’irrigidisce e batte i tacchi: «Grazie, Signor Tenente Generale!»
La scritta sopra la porta non inganna: l’ambiente in cui entrano è esattamente come chiunque s’immagina debba essere una sala per riunioni militari.
Un’aula ampia, ma spoglia.
Sulla parete di fronte, davanti a due finestroni con tendaggi minimi – tanto che dalle finestre affacciate sullo stesso piccolo cortile quadrato si può facilmente osservare cosa avviene nella stanza – spicca un lungo banco di legno scuro, poggiato su una pedana, e due sedie di foggia essenziale.
Non ci sono mobili, solo alcuni arredi rigorosamente militari: sulla parete d’entrata due aste, affiancate, espongono la bandiera tricolore del Regno e quella del Corpo di Stato Maggiore del Regio Esercito; a destra delle bandiere, le foto incorniciate di Vittorio Emanuele III di Savoia e del Ministro della Guerra in carica, Enrico Caviglia; a sinistra quelle dell’attuale Capo di Stato Maggiore, Armando Diaz, e dei suoi predecessori, in ordine cronologico decrescente: Cadorna, Polillo, Saletta, Primerano e Cosenz.
Dietro il banco sono collocati quattro scanni, uno dei quali, nell’angolo, è occupato dalla corpulenta figura del Maresciallo Codeluppi. Il sottufficiale siede davanti a una macchina per scrivere Olivetti M1 con un foglio bianco già inserito, ed è circondato da varie pile di voluminosi incartamenti, disposti con ordine. L’omone, dalla folta chioma candida, indossa una divisa di buon taglio che gli si sta visibilmente stretta.
Appena Moretti, seguito da Alfieri, varca la soglia, il Maresciallo si leva goffamente in piedi, ma il Tenente Generale s’affretta a dire: «No, no. Stia seduto, Codeluppi. Per questa mattina siamo sazi di protocollo militare, di cui il nostro Capitano ha fornito un’irreprensibile interpretazione… Senza nulla togliere – aggiunge con una punta d’ironia, indicando Bentivegna ed Aderlini – al Colonnello e al Maggior Generale. E devo dire che anche i bravi militi, qui fuori, hanno fatto la loro parte… Ma adesso non vedo l’ora di iniziare. Ho avuto l’onore di svolgere molti servizi per la Patria, spesso difficili, ma mai come questa volta trovo vero il detto che il più importante è il prossimo».
Quindi, prende posto nello scranno centrale. Bentivegna e Aderlini si mettono al suo fianco.
Perché si accomodi anche Moretti, c’è bisogno che il Tenente Generale lo sproni. Gli indica le sedie davanti al banco: «Prego Capitano! L’invito ad una maggiore informalità vale soprattutto per lei! Non dimentichi che noi siamo comprimari. Il vero protagonista dell’indagine è lei».
Moretti sorride intimidito, ma quando accenna a piegarsi sulla sedia, si blocca di colpo, stringendo gli occhi in una smorfia di sofferenza. E si appoggia alla spalliera come se temesse di cadere.
Tutti rimangono sorpresi. Il primo a reagire è Codeluppi, che si leva in piedi preoccupato: «Ehi, sa sent be?»
«Non è nulla – ribatte Moretti, sforzandosi di recuperare il sorriso – Un piccolo capogiro. È già passato».
Dalla cautela con cui si cala sul sedile, non sembra.
«Facciamogli portare un bicchier d’acqua!» ordina il Presidente. E pronto Codeluppi abbandona il posto per eseguire.
«La prego, signor Tenente Generale, non è necessario! – prova a opporsi Moretti – Ogni tanto ho ancora piccoli attacchi di vertigini. Ci sono abituato. Durano solo qualche secondo. I dottori assicurano che presto scompariranno».
Ma oramai Codeluppi, trotterellando goffo, si china su di lui, appoggiando premuroso una mano sulla spalla: «Tutto a posto?»
«Codeluppi, la prego! – esorta Alfieri – È un eroe di guerra! Una roccia che ha resistito a terribili disagi. Vada! Un bicchier d’acqua basterà. Giusto?»
Il Capitano annuisce.
Mentre raggiunge la porta per ordinare alla guardia di procurare quanto richiesto, Codeluppi pensa, da militare navigato da quarant’anni di servizio, che il Tenente Generale sia troppo ottimista.
Il Capitano Moretti non può essere in così buona forma.
Le ferite inferte nel corpo e nello spirito sono ancora troppo recenti per essersi non solo rimarginate, ma anche adeguatamente riassorbite.
Il Maresciallo si chiede se sia stato giusto, per soddisfare un’esigenza pur così lodevole, sottoporre il fresco reduce da un’avventura di guerra sconvolgente al logorio di una rievocazione.
Ma i tanti patrioti italiani, ancora toccati, nonostante le successive pagine di gloria, dalla vergognosa rotta del 24 ottobre 1917, hanno bisogno, il Maresciallo ne conviene, di essere rassicurati.
Mentre Codeluppi adempie al compito, Aderlini, prova stemperare la tensione: «Corre voce che lei voglia cimentarsi come scrittore, Capitano. È vero?»
Moretti si schernisce: «Oh no, signor Colonnello!»
Anche il Tenente Generale asseconda la divagazione: «Non deve vergognarsene, Capitano! Dare alle stampe il racconto della sua esperienza di guerra è un’ottima idea! Stando a quanto si dice, lei è un’ottima penna. Sappiamo che si è laureato in Lettere all’Università di Genova».
Moretti sembra aver superato il momento di difficoltà: «No, signore. In quella di Pisa».
«Perdoni, sapendola nato a Chiavari pensavo avesse frequentato l’università del capoluogo ligure. Quindi è un “normalista”».
La porta si riapre, ed entrano Codeluppi e il Caporale Cimaglia, con vassoio in mano, bottiglia e un bicchiere.
«Non ho frequentato il collegio della Scuola Normale Superiore – risponde il Capitano – Ero un semplice iscritto alla Facoltà di Lettere, signore».
Di nuovo Aderlini: «L’argomento della sua tesi è molto interessante: Il trionfo della Morte del nostro incomparabile “Immaginifico” … Suo ammiratore?»
Su indicazione di Codeluppi, Cimaglia porta il vassoio a Moretti che, prima di proseguire, prende il bicchiere, ringrazia e invita il Caporale a posare il vassoio a terra, vicino alla sedia.
La disinvoltura con cui il Capitano si adatta alla situazione, senza disturbare la Commissione chiedendo di sistemare il vassoio sul banco, non fa che confermarne la prolungata abitudine ad una vita spartana.
Poi, col bicchiere ancora in mano, annuisce: «Certamente! Stravedo per le qualità letterarie di Gabriele D’Annunzio. Ma piuttosto che “Immaginifico” preferisco chiamarlo “Vate”».
Nell’aula aleggia l’eco dei comizi oltranzisti e passionali che D’Annunzio sta tenendo a Roma. Sull’onda della polemica per la cosiddetta “vittoria mutilata”, come lui stesso l’ha definita, il poeta pescarese, con spregiudicato ardore, si è messo alla testa del movimento popolare insofferente agli ostacoli che si frappongono, nella Conferenza di pace di Versailles, all’annessione di Fiume all’Italia.
Non v’è dubbio che D’Annunzio, già distintosi durante il conflitto per aver partecipato alla temeraria incursione dei “motoscafi armati siluranti” nella baia di Buccari e a uno spericolato volantinaggio aereo su Vienna, mai come prima d’ora ha assunto il ruolo di “Vate’, ovvero di uomo di lettere animato da forte passione civile, che interviene attivamente nella lotta politica.
Che anche Moretti sia “dannunziano” in quel senso? – si chiede Alfieri – Non sembrerebbe, visto il suo inquadramento in un corpo fiduciario dello Stato come il Servizio informazioni.
Ma resta pur sempre un reduce, la categoria che, in quel difficile dopoguerra, maggiormente morde il freno per essersi ritrovata in balia della gravissima crisi economica.
Il Capitano appartiene ad una famiglia della piccola borghesia, uscita con le ossa rotte dalla guerra e, forse, per il non buono stato di salute, dovrà essere congedato, con onore ma con un magro sussidio.
Sì, il fatto che Moretti senta D’Annunzio come “Vate”, potrebbe essere indicativo. Non foss’altro perché a Fiume, per effetto della propaganda del poeta, la situazione si è fatta incendiaria. Pare addirittura essersi costituito un esercito irregolare pronto a intervenire, la “Legione fiumana”, formata da soldati irrequieti provenienti dalle fila del Regio Esercito.
«Comunque – precisa il Capitano – sono davvero lontano da velleità letterarie. Se vi riferite al “diario” che ho cominciato a scrivere durante la prigionia, e che naturalmente ho portato qui con me, perché mi servirà ad aiutarvi…». Ed estrae dalla tasca uno spesso quaderno.
«Lo riconosco – interviene Bentivegna – per correttezza il Capitano lo ha consegnato al comando del corpo, allegandolo al rapporto. Gliel’abbiamo restituito dopo aver constatato che si trattava di uno scritto personale».
Moretti annuisce: «Questo diario, dicevo…ha uno scopo terapeutico».
«Terapeutico?» domanda stupito Codeluppi.
«Sì, me l’ha “prescritto”, diciamo così, il dottor Markus Walther».
Il cognome lascia tutti di stucco. Alfieri corruccia il volto: «Un nome austriaco…».
Il Capitano emaciato sembra divertito dalla reazione: «Non tema, Signor Tenente Generale: non ho scelto di farmi curare da un ex nemico. I medici del Regio Esercito sono più che valenti e devo a loro di essermi ristabilito in fretta. Ma quando ero in ospedale ho avuto la buona sorte d’incontrare un ufficiale medico scrupolosamente fedele al giuramento di Ippocrate, che si è dedicato a me con assiduità e bravura. Quella del diario è un’idea sua. Sosteneva che mi avrebbe aiutato a superare il senso di confusione e le amnesie che mi affliggevano. Lo suggerirebbe una teoria per i disturbi mentali che ha preso piede negli ultimi decenni, non so se la conoscete, si chiama…»
«La psicoanalisi! – lo interrompe entusiasta il marchese di Roccaferro – Il suo Walther è un seguace di Sigmund Freud!»
«Di più, signor Colonnello. È stato suo allievo all’Università di Vienna. Così almeno mi ha detto, e conoscendolo non ho motivo di non credergli».
«Quindi Walther l’ha esortata a mettere per iscritto i suoi ricordi per facilitare il recupero della memoria?» chiede Aderlini.
«Proprio così. Sosteneva che il metodo più corretto sarebbe stato sottopormi a lunghe sedute giornaliere di psicoterapia, ma ovviamente non ce n’era il tempo».
«Fantastico! – esclama il Marchese, che quando si infervora su un argomento diventa persino piacente – Poco c’è mancato che lei, Capitano, non sia stato fatto distendere sul famoso lettino per raccontare a ruota libera i ricordi di guerra!»
«Naturalmente, il Capitano non sarebbe caduto nella trappola – interviene Alfieri per tagliar corto – E do per scontato che nel diario abbia evitato di rivelare dettagli che potessero compromettere la sicurezza del Regno».
Moretti fa sì, sì col capo: «Certo, signore. Nella prima versione, quella scritta in prigionia, mi sono attenuto a questa cautela».
«Bene, signori – conclude il Presidente – Si comincia!»
La voce, rispettosa ma determinata, di Bentivegna echeggia in aula: «Se permette, Signor Presidente, quanto abbiamo appena discusso mi suggerisce un’idea. Forse il dottor Walther può essere d’aiuto al nostro lavoro».
Alfieri è perplesso: «Non vedo come».
«Beh, questo medico di Mauthausen, se è sopravvissuto al conflitto, sarà tornato alla professione, nell’esercito o, più verosimilmente, in privato, visto che è specialista in una disciplina molto in voga… Non dovrebbe essere difficile rintracciarlo e acquisirne la testimonianza».
«Mi sembra un po’ troppo ottimista, Maggior Generale» replica Alfieri con un sospiro, distendendosi sullo schienale.
«Non direi, Signor Presidente. Dopotutto, il campo di concentramento è stato chiuso da appena sei mesi».
Alfieri ci riflette su. Poi ne conviene: «Giusto. Disponga subito per l’invio di un fotogramma al Comando Supremo Austriaco, Maresciallo».
Mentre Codeluppi fila verso il grosso telefono a manovella all’angolo del bancone, Moretti tossisce: «Se mi è concesso, il suggerimento del Maggior Generale è molto apprezzabile… ma temo che difficilmente andrà a buon fine…»
«Le rammento che la “Kaiserliche und Königliche armee” è stata sbaragliata» lo rimbecca, con orgoglio, Alfieri, in un tono che riecheggia l’ormai celeberrimo “Bollettino della vittoria” del Generale Diaz. «Non è in condizione di rifiutarci una piena collaborazione».
«Non volevo metterlo in dubbio, signor Tenente Generale – si affretta a spiegare il Capitano – Intendevo tutt’altro. L’Oberleutnant Walther operava nell’ospedale di Linz. Ha avuto occasione di conoscere solamente me. L’eroe innominato che stiamo cercando è rimasto sempre nel lager vero e proprio. I due non si sono mai incontrati».
« “Eroe innominato”! Bella definizione! – si complimenta Aderlini – Comincio a credere che lei debba ripensarci, sulla pubblicazione del suo “memoriale”!»
Il Presidente si fa pensieroso: «Ho capito, Capitano. Ma vale comunque la pena tentare». Poi ironizza: «Trarre dall’ombra l’“eroe innominato”, come lo chiamate voi uomini di belle lettere, è la nostra missione, e non dobbiamo tralasciare nulla».
Moretti annuisce, ma a Codeluppi, rimasto a osservare lo scambio di battute mentre dettava a bassa voce il messaggio al Centro Comunicazioni dello Stato Maggiore, non sfugge la sua perplessità. E la condivide: il dottor Walther, per il suo ruolo, non poteva sapere molto su un prigioniero che non aveva mai visitato né curato.
«Il nostro efficientissimo Maresciallo – passa oltre il Presidente – ha raccolto tutta la documentazione disponibile». Indica i copiosi incartamenti che ingombrano il ripiano di fronte allo scranno di Codeluppi: «Se siete d’accordo, incomincerei dal dossier che riguarda il protagonista meno edificante della vicenda, quell’indegno soldato sardo. Come si chiamava?»
Fine