Diverse puntate fa (quando, per l’iniziale I, s’è parlato di “Internazionalità” dei vitigni), abbiamo avuto modo di assaggiare insieme qualche Chardonnay piemontese. In quell’occasione, avevo scelto lo Chardonnay come emblema di vitigno internazionale per fare un breve ragionamento su come la via d’espressione di un territorio e di una filosofia produttiva possa essere non solo l’interpretazione di un vitigno legato a tali territorio e filosofia in maniera indissolubile ma anche quella di un vitigno che svolge la medesima funzione anche in zone pur molto diverse; anzi, da un certo punto di vista è piú immediato cogliere le caratteristiche specifiche di un territorio o di un altro attraverso la comparazione fra espressioni altrettanto riuscite di un medesimo strumento (il vitigno non autoctono, ossia non indissolubile dal suo luogo d’origine) in luoghi e condizioni differenti.
Il Piemonte è una delle regioni italiane dove il vino ha una tradizione piú lunga e ininterrotta. Pure, sono molte le denominazioni che in tale impostazione tradizionale inseriscono la possibilità di vinificare vitigni non autoctoni: e questa, se compiuta con amore e con criterio, è un’operazione che non contrasta affatto la tradizione ma vi si inserisce; tra l’altro, in diverse zone d’Italia i vitigni internazionali sono radicati da talmente tanto tempo e danno espressioni talmente uniche che si può a buon diritto parlare di una loro territorialità e tipicità acquisita ormai sul campo.
Vitigni internazionali si trovano addirittura in una D.O.C.G. piemontese: l’Alta Langa, di cui abbiamo parlato proprio in apertura di questa Rubrichetta. Se ne trovano poi in diverse D.O.C.; oltre alle denominazioni “Langhe” e “Piemonte” – di cui abbiamo già detto in quella puntata dedicata alla <I> –, che prevedono proprio una predominanza di tali vitigni, ne è contemplata la presenza in uvaggio per molte altre.
Oltre però all’uso di vitigni internazionali o all’impiego di tecnologie non storicamente piemontesi (botti molto piccole magari nuove, e simili), esiste un altro caso in cui il fascino dell’esotico s’insinua nella vitivinicoltura piemontese: è il nome del “Doux d’Henry”, vitigno a bacca rossa tipico del Pinerolese. Si tratta stavolta di un vitigno autoctono (anche se qualche ampelografo ne ipotizza una derivazione dalla Francia, comunque molto lontana nel tempo), che caratterizza una delle espressioni della sua denominazione – della quale abbiamo in generale già parlato –.
Il Doux d’Henry non viene quasi mai vinificato in purezza. Comunque, i vini che derivano in prevalenza da questo vitigno sono da bere giovani e non troppo sopra i 14°C: hanno color rubino, profumi non molto intensi di frutta croccante, gusto fresco e piacevolmente semplice.
Gli abbinamenti consigliabili vanno da un primo piatto di pasta fresca con sugo di carne a preparazioni di pollame con verdurine; ottimo anche per una chiacchierata fra amici al pomeriggio.
Per quanto riguarda i formaggi, suggerisco l’abbinamento con un Taleggio D.O.P.: formaggio famosissimo, ottimo anche nella preparazione di risotti e pasta ripiena. Prodotto da latte vaccino crudo, dà il suo meglio sul finire dell’estate in occasione della prima mungitura in valle dopo la permanenza in alpeggio (formaggio “stracchino”); si presenta grasso e molle all’interno della crosta lavata, e non subisce che una breve stagionatura; l’aroma è molto caratteristico, e il sapore è privo di particolari asperità acido-amare. Si abbina bene col vino, specie accompagnato da un biscotto salato o da un grissino torinese.