Ci ridate almeno il tandem? [L’Olimpiade di Lettera 32]

di Beppe Giuliano

Capitolo 15

Atleti che barcollavano, nel caldo soffocante, con la temperatura sopra i 40 gradi, i soccorritori della Croce Rossa che andavano a cercare i dispersi. Siamo sempre a Parigi, ma un secolo fa. Dopo quell’edizione si decise, saggiamente, di non disputare più la corsa campestre. I dieci chilometri del percorso erano davvero campestri, con tratti sulle pietre, altri in mezzo all’erba che arrivava al ginocchio. Erano partiti in 38, arrivarono in 15.

Neppure le condizioni estreme scoraggiarono Paavo Nurmi, il finlandese che correva con il cronometro in mano (alcuni sostenevano ci tenesse una foto della madre). Percorse i 10 chilometri e 650 metri in meno di 33 minuti, gli tenne testa solo il connazionale Ville Ritola. Nove ori olimpici uno, in tre edizioni, quattro l’altro tutti vinti a Parigi 1924, d’altronde.

Cervi e cinghiali

Un disgraziato cervo che se la passeggia tutto il pomeriggio nello stand di Saint Cyr ricevette esattamente In corpo sei proiettili di ogni dimensione e di ogni nazionalità, e tuttavia alla fine del pomeriggio il cervo era sempre In piedi. Ma era un cervo di legno, montato su di un vagoncino, che si recava a grande velocità da un capo all’altro dello stand, salendo e scendendo lungo una piccola ferrovia che ricorda le montagne russe. 22 tiratori hanno partecipato al concorso.

Pure il tiro al bersaglio mobile sta tra gli sport non più nel programma olimpico. Più che gli spettatori ha sempre affascinato i cronisti, dobbiamo dire. Abbiamo riportato una cronaca del 1924, ma anche a Monaco 1972 Marcello Del Buono – che scriveva per ‘L’Unitá’ – si divertì parecchio:

Non si può, infine, passare sotto silenzio l’avvio della gara più prestigiosa. Il tiro al cinghiale mobile. La sagoma di cartapesta scorre su un carrello, tuonano i Winchester e – a differenza di quanto succede al Luna-Park – non si accendono le lampadine né si ode il lamento dell’animale ferito. Così, avanti e indietro, per un paio di ore al giorno. E poi dicono che non è un baraccone.

Disciplina aristocratica

Tra gli sport dimostrativi di Parigi 1924 c’era la pelota basca, che si rivedrà a Messico ‘68 e di nuovo nel 1992 a Barcellona: parteciparono sono francesi e spagnoli, che vinsero tutto. E due arti marziali: il savate – d’altronde anche chiamato boxe francese – e la canne de combat, altra disciplina tipicamente transalpina. Il savate, considerata disciplina aristocratica, venne presentato al Vélodrome d’hiver tra venti combattenti di cui tre belgi, con dieci assalti cui ne venne aggiunto uno della canne de combat, senza assegnazione di medaglie.

Il velodromo maledetto

Il Vél’ d’Hiv’ – come lo chiamavano – nel 1924 non ospitò il ciclismo, ma nella sua lunga e maledetta storia si son pedalati lì innumerevoli meeting e Sei giorni. L’aveva infatti voluto, a inizio secolo, Henri Desgrange, già pistard, editore de ‘L’Auto’ (oggi L’Équipe) e ideatore del Tour del France, facendolo realizzare nel quindicesimo arrondissement, nei pressi del luogo dove, all’esposizione universale del ‘900, c’era stata la Galerie des Machines. Tribune in mattoni e béton, una grande vetrata zenitale che insieme a mille lampadine illuminava la pista di 250 metri con curve sopraelevate. Ospiterà, nel suo mezzo secolo di vita, diversi sport e davvero tanti campioni, fino all’ultima Sei giorni prima della chiusura del 1959, in cui tra gli altri si affrontarono Fausto Coppi, Jacques Anquetil, Roger Rivière. Tra le reginette delle Sei giorni ci fu la divina Édith Piaf.

Era un posto dove andare, lo raccontò pure Hemingway in ‘Festa mobile’. Almeno fino alla tragedia, che ce ne ha consegnato per sempre un ricordo lugubre, quando nel “1942 fu il luogo del più grande arresto in massa di ebrei avvenuto in Francia durante l’occupazione nazista. L’operazione, guidata dalla polizia francese e battezzata con il nome “Vento di Primavera”, portò alla cattura di 13.152 persone, tra cui 4.115 bambini tra i 2 e i 15 anni”, come leggiamo su ‘Il Post’. Una operazione che ebbe anche complicità francesi, per esempio le chiavi del Velodromo furono consegnate ai nazisti da Jacques Goddet, direttore del Tour per mezzo secolo, succeduto a Desgrange alla direzione de ‘L’Auto’. Sotto la grande vetrata del Velodromo, dipinta dai carnefici di blu scuro per non far entrare la luce, i prigionieri vennero tenuti in condizioni disumane per giorni, prima di essere spediti nei lager, da cui ben pochi torneranno.

Il re del Vigorelli

Noi oggi abbiamo un solo velodromo coperto, in provincia di Brescia. Anche per questo il bronzo del nostro quartetto dell’inseguimento, con il fenomenale Pippo Ganna, Consonni, Lamon e Milan deve essere considerato un ottimo risultato.

Eppure c’è stato un tempo, tra il dopoguerra e gli anni del boom, in cui il ciclismo su pista era uno spettacolo alla moda. Il clou era la Sei Giorni di Milano. All’interno della pista del velodromo Vigorelli venivano apparecchiati costosi tavoli, affollati da industrialotti e giocatori d’azzardo – i due gruppi sovente non si distinguevano – entrambi accompagnati da signore in pelliccia.

Il re del Vigorelli, che tra l’altro era a un passo da casa sua (viveva in viale Certosa) fu Antonio Maspes. Vinse tra l’altro sette volte il mondiale dei velocisti. Ne scrisse un meraviglioso ricordo Mario Fossati, quando il campione di ciclismo morì giovane: “lo ha trafitto un infarto” scrisse, e per ricordarlo parlò di “night, sprint e surplace”.

In quell’articolo definì la poesia del surplace, “che era una pausa, una proposta filosofica all’ avversario, un inganno”.

Oggi il surplace non si fa più, e alle Olimpiadi purtroppo non c’è più il tandem.

Ridateci il tandem

Prima di passare al professionismo, e guadagnare davvero tantissimo, almeno per l’epoca, Antonio Maspes era stato bronzo nella specialità del tandem nel 1952 insieme a Cesare Pinarello, futuro costruttore di biciclette da campioni e di nuovo sul podio quattro anni dopo.

Noi il tandem l’avevamo vinto a Londra 1948 (Terruzzi e Perona) e dominato all’inizio degli anni ‘60 grazie a Sergio Bianchetto, due volte olimpionico, a Roma con lo storico partner Giuseppe Beghetto e, passato questi professionista, a Tokyo con Angelo Damiano. A Messico ‘68 toccò alla coppia francese Trentin-Morelon, che rimangono tra i più grandi interpreti della specialità, a Monaco 1972 dominarono i dilettanti di stato: sovietici primi, tedeschi dell’Est e polacchi con loro sul podio.

Poi prevalsero specialità gradite ai paesi in cui il ciclismo su pista attraeva ancora tanto pubblico (e scommesse). Il romantico tandem ormai non lo si corre praticamente più. Sarà pure demodè, lo ammettiamo, ma il suo fascino ci manca: ci ridate, nelle prossime edizioni, almeno il tandem?

E dire che c’è stato un tempo in cui il tandem andava sulla copertina del Radiocorriere TV (foto)