di Dario B. Caruso
Da decenni ormai la scuola si occupa di inclusione.
Lo fa con impegno, con difficoltà, con incompletezza, talvolta con imperizia.
Ma ci prova.
Ci prova perché la scuola è fatta di donne e di uomini che si impegnano per fare e possono sbagliare.
Ci prova perché la scuola è un fondamento dell’educazione e spesso, suo malgrado, sopperisce alle carenze di famiglia e società civile.
Ci prova perché la scuola – secondo l’articolo 34 della Costituzione Italiana – è aperta a tutti e i capaci e i meritevoli – anche se privi di mezzi – hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
È possibile che quel privi di mezzi si riferisca solamente a mezzi economici? Forse sì, allora; e forse no, alla luce del mondo di oggi.
Per chi lavora nella scuola non è una novità. È una lezione che la professione di insegnante impartisce quotidianamente: siamo tutti, piccoli e grandi, abili in qualcosa e disabili in qualcosa d’altro.
Pensate che in questi ultimi anni sono aumentati considerevolmente i Piani Didattici Personalizzati, i cosiddetti PDP, che consistono nell’individualizzare l’approccio con il singolo studente, la definizione dei contenuti, le modalità e i tempi di somministrazione dei contenuti stessi e così via.
Se ciò vi sembra poco, può essere che io mi sia spiegato male o che magari abbiate letto troppo disinvoltamente.
Per la buona pace di tutti dirò qualcosa di dirompente: siamo tutti diversi!
(silenzio)
Lo comprendo, è un concetto nuovo che oggi facciamo fatica a digerire.
L’omologazione ci sopraffà ma sappiate che per quanto vogliamo apparire simili al nostro amico figo, alla nostra vicina di banco che mostra il piercing all’ombelico, alla popstar che idolatriamo, al campioncino di calcio che emuliamo in quello sciocco taglio di capelli, al trapper che smanetta in egual modo soldi, donne e motori, non riusciremo mai ad essere loro.
Siamo pezzi unici.
Dovremmo vivere questa unicità come una sorta di solitudine illuminata.
È una solitudine che non deve farci soffrire poiché in quanto tutti pezzi unici non possiamo essere invidiosi della solitudine altrui.
Godiamoci la nostra, di solitudine.
Che poi solitudine non vuol dire necessariamente essere soli.
Magari sta a significare che siamo capaci a ragionare da soli, senza farci fuorviare; siamo in grado di ricordare da soli, senza bisogno che qualcuno lo faccia per noi; siamo capaci di leggere e comprendere ciò che leggiamo; siamo capaci di essere gentili con chi non lo è; siamo capaci addirittura di stare in silenzio con noi stessi; siamo capaci di stare composti a tavola ma anche sbragati sul divano di casa; siamo capaci di cantare da solisti e pure in coro.
Soli ma insieme.
Immagino scuole con aule piccole piccole, tutte dipinte di bianco, una finestrella in alto.
Al centro una sedia, un banco, un tablet.
Sulla porta dell’aula il nome della classe che poi è il nome dello studente, ad esempio “classe Mario Rossi”.
Anzi pensandoci bene “classe MR”, per la privacy cosicché Laura Bianchi, situata nella “classe LB” a fianco, non saprà mai chi sia MR e viceversa.
Lo ricordo a me stesso: siamo tutti pezzi unici, tutti ma non soli.