La piccola fidanzata della Francia [Lettera 32]

di Beppe Giuliano Monighini

Maggio 1968. Il giorno 3, studenti occupano il cortile della Sorbonne. Viene comodo collocare lì, in quel venerdì, l’avvio del mese più politico e turbolento che la Francia abbia vissuto nel secondo dopoguerra. Tra le tante conseguenze di quel ribelle maggio francese ci fu pure la chiusura anticipata delle scuole.

Così una giovanissima insegnante di educazione fisica in una scuola, adesso a lei intitolata, a La Réole, paese di quattromila anime nella Gironda, ne approfitta per trasferirsi sui Pirenei, verso Perpignano.

Va in un paese che si chiama Font-Romeu, ma non nel centro sportivo pure questo ora a lei intitolato. Campeggia a circa 2000 metri, in una tenda nel camping Menhir. In una lettera ai genitori scrive: Da qualche giorno fa davvero molto caldo, mi sono abbronzata anche evitando il sole.

D’altronde lei è mora, con lunghi capelli neri. Ha appena compiuto 22 anni. Corre, molto veloce, ma con la federazione francese non va d’accordo, lei fa di testa sua. E poi non sopportano Yves Durand Saint-Omer, che la allena da quando di anni ne aveva sedici, con quei suoi metodi innovatori e “naturali”.

Colette Besson, così si chiama, dopo un paio di mesi di allenamento va a vincere, da indipendente, il campionato nazionale dei 400 metri piani. All’Olimpiade in programma per ottobre, in Messico a un’altitudine simile a quella del campeggio dove lei si è trasferita, sono costretti a mandarcela. Ma lui, il suo allenatore, no, non ce lo vogliono. Così si compra il biglietto. Lei gli prepara dei sandwich, glieli porta fuori dal villaggio olimpico, dove lui non può alloggiare. E per farlo entrare nello stadio falsifica il pass, d’altronde con la scrittura lei se la cava benissimo.


C’è un posto, si chiama Angoulême nel dipartimento della Charente, regione Nuova Aquitania. È la capitale della carta, infatti lì c’è il Musée du papier.

Sono solo novanta chilometri da Saint-Georges-de-Didonne, dove Colette è nata, in riva al mare.

Lei compra gli eleganti quaderni in carta di Angoulême, e ci annota metodicamente allenamenti, tempi e metodi.

Qualche tempo dopo quei quaderni ordinati si gonfieranno, perché lei ci incolla tutte le fotografie di Dave Bedford che riesce a trovare, metodicamente ritagliate dai giornali.

Anche lui fa atletica leggera, è un fondista inglese, molto forte ma senza lo sprint per vincere le gare all’ultimo giro. Un cavallo pazzo con l’aspetto da attore di spaghetti western, capelli neri lunghi, baffoni. Ha il vezzo di correre sempre con le calze rosse, Bedford. In una foto di Besson che si vede spesso, fatta ai tempi dell’Olimpiade del 1968, sono rossi i fiocchi che tengono i due codini in cui lei ferma i lunghi capelli neri. Ed è rosso il fiocco che ferma quei capelli in una coda, mentre lei piange sul gradino più alto del podio.


Quando le finaliste dei 400 metri piani entrano sul rettilineo del traguardo, la ragazza in corsia 5 con la maglia blu e il pettorale 117 è tra le ultime, sesta di otto. I 400, come noto, son detti “il giro della morte”: dosare le energie, avere ancora forze per un rettilineo finale che altrimenti sembra non finire più è tutt’altro che scontato. Quei cento metri circa devono essere sembrati chilometri, per esempio, alla cubana Aurelia Penton, che pure li inizia davanti a tutte.

Colette Besson, l’insegnante di educazione fisica, la ragazza che fa di testa sua, quella col fiocco rosso a legare i lunghi capelli neri, il rettilineo lo vive, per citare il titolo di un celebre film francese, “fino all’ultimo respiro”. Proprio così scrive il cronista di ‘L’Équipe’: “Portée par un stade de 80.000 personnes en ébullition, elle dévore, une à une, ses rivales, littéralement à bout de souffle” (appunto il titolo originale del film di Jean-Luc Godard).

Mentre lo scrittore Antoine Blondin, suo grande ammiratore (sarà lui a coniare il soprannome con cui viene ricordata), scrive di “ligne droite triomphale (…) avait l’exubérance d’une révolution mexicaine”.

L’ultima a resisterle, che Colette supera davvero a due passi dal traguardo, è Lillian Board, l’inglese. Sul podio la delusione per la medaglia solo d’argento non la nasconde. Board deve ancora compiere vent’anni, c’è tempo per una rivincita, le dicono. Tra quattro anni ci sono di nuovo le Olimpiadi, a Monaco, ti rifarai là le dicono. Lei ha un talento straordinario, è capace di vincere dai 100 metri fino al miglio. Ma invece di vincere l’oro olimpico Lillian a Monaco ci morirà in una clinica a fine 1970, pochi giorni dopo averne compiuti 22 di anni, ammazzata da un male che davvero fu incurabile.


Piange sul gradino più alto del podio Colette Besson, la seconda transalpina a vincere un oro olimpico nell’atletica dopo Micheline Ostermeyer, altra storia mica da poco. A Londra 1948 Ostermeyer vince il disco e il peso, per due volte battendo azzurre: Edera Cordiale e l’alessandrina Amelia Piccinini. Non contenta, fa anche la terza del salto in alto, ma ai campionati nazionali è capace di vincere in ben otto diverse specialità. E dire che la sua vita, come dirà, è quella di concertista: infatti è una pianista classica.

Piange sul podio Colette Besson, e con lei piangono tutti i suoi connazionali, a iniziare dal primo. Lei è la sola donna ad avermi fatto piangere, dirà infatti il generale De Gaulle nel riceverla all’Eliseo. Besson anche in quell’occasione si distingue: arriva su un’auto scoperta, davvero presidenziale, indossa un cappello a larghe tese. Nessuno può evitare di ammirarla.

Lei comunque non è mai banale. Dopo l’oro di Messico, mangiata una entrecôte in un ristorante francese, era partita col suo allenatore, su una R8 gentilmente fornita da Renault, per andare ad Acapulco. Quando tornò in patria, la Matra le consegnò un’auto sportiva, una 530 gialla con il suo nome inciso in lettere dorate. Qualche altro supporter le mandò 400 bottiglie di grand cru. Lei gradì, e l’anno dopo per gli europei di Atene mise invece in valigia il foie gras.


Gli europei di Atene, un anno dopo Messico, sono la nemesi sportiva per Besson, due volte beffata sul filo di lana, due volte comunque correndo con il tempo del record mondiale: e se sui 400 la batte la connazionale Nicole Duclos, nella staffetta la supera proprio Lillian Board. E a proposito di staffetta, Besson correrà la prima frazione della 4×100 dei Giochi del Mediterraneo del 1971 fianco a fianco con la nostra alessandrina Maddalena Grassano, in una corsa vinta dalle azzurre.

A Monaco, Olimpiade del 1972, ormai Colette ha altro per la testa. Oltretutto tra gli atleti c’è pure quel Dave Bedford, quello delle foto appiccicate sul quaderno in carta di Angoulême. Si racconta che Colette coprisse i suoi bellissimi capelli neri con una parrucca bionda per sgattaiolare dal villaggio e incontrarlo. Di certo, lui che al via dei diecimila aveva il solito aspetto, alla successiva gara sui 5.000 si presentò sbarbato, coi capelli più corti. Si era fatto bello. Per lei, dicono.

Poi c’è la vita da vivere, per Besson, e la vive proprio come quel rettilineo olimpico: à bout de souffle. Prende casa a Épinay e frequenta cinema e ristoranti di Saint-Germain-des-Prés. In Togo, in una discoteca (Le Tango), conosce Jean-Paul Noguès, il direttore commerciale di una società francese per l’Africa dell’Ovest. Si sposano e hanno due figlie, Sandrine e Stephanie. Entrambe le assomigliano tantissimo. Vuole vedere New York e quindi ci va a correre la maratona, da turista, ci mette infatti quattro ore e mezza, colpita dai crampi. Corre solo per diletto, ma intanto dà voce alla lotta contro il doping, con grande autorevolezza. Viaggia il mondo Colette: Martinica, Tahiti, Réunion. Nei primi mesi del 2005 è a Marrakech, a giugno compra l’attrezzatura per un’immersione subacquea. Anche se sa già bene che sarà l’ultima: il tumore che l’ha presa, alla gola, ai polmoni, non può batterlo sulla dirittura d’arrivo.

Il 9 agosto del 2005 muore a La Rochelle Colette Besson, «la petite fiancée de la France», la piccola fidanzata della Francia.

Immagini tratte dal sito https://www.c-royan.com/sports-loisirs/sports-divers/athletisme/302-colette-besson.html