Case d’inferno (2) [Il Superstite 516]

ATO6: "Crisi idrica, i cittadini siano più parsimoniosi con l'acqua" CorriereAl 1

di Danilo Arona

Di matrice letteraria è anche la “casa con gli occhi” di Amityville, situata al n° 112 di Ocean Avenue, a Long Island. Il libro che ripercorre i 28 giorni da tregenda vissuti dai coniugi George e Kathleen Lunz nel dicembre del ’76, pubblicato in Italia nel ’79, fu scritto dallo scrittore documentarista Jay Anson, altro artista spentosi anzitempo a pochi mesi dall’uscita di quello che sarebbe divenuto un best-seller da dieci milioni di copie. Come ricorderà chi ha visto la versione cinematografica firmata da Stuart Rosenberg, i due incauti sposini, dopo quasi un mese di convivenza con poltegeist e manifestazioni spettrali di ogni tipo, mollavano la spugna e fuggivano nottetempo senza neppure voltarsi indietro. La particolare “forma “ coloniale della casa – che sembra proprio una faccia/zucca di Halloween con gli occhi infuocati – e  vari film posteriori, pseudo-sequel o spin-off, hanno trasformato la magione nella più famosa delle haunted house, anche perché mezzo mondo la ritiene autenticamente infestata. Per quel che si può affermare per certo (ma niente è mai certo dentro e fuori le case infestate…), nel village di Amityville a quell’indirizzo tal Ronald DeFeo jr. sterminò a colpi di fucile i genitori e quattro fratelli la notte del 13 novembre 1974. Da allora è una ridda di storie a favore delle forze soprannaturali (come quella dei Lutz) e contrarie (come quelle ufficiali delle autorità di Amityville) e, sebbene lo stesso Anson non abbia mai fatto mistero di avere inteso trasformare una storia vera in una vicenda da poltergeist, i partiti pro e contro sono ancora oggi l’un contro l’altro armati. Dopo che le ricerche dell’istituto di parapsicologia di Durham hanno comprovato l’infondatezza degli eventi narrati dai Lutz e la loro malafede a evidenti fini di lucro, nessun proprietario negli ultimi vent’anni non ci ha mai abitato troppo a lungo e a tutt’oggi e la cosa è tuttora in vendita. E allora? Allora niente. Il fatto che persino la trasmissione televisiva Voyager abbia dichiarato a suo tempo che la coda paranormale alla strage di DiFeo è una bufala, ha alimentato tesi di segno opposto…

Torniamo ancora all’Overlook Hotel, senza dubbio in senso “espanso” la più grande delle haunted house. L’Overlook immaginato da King fu ispirato da una notte passata da King allo Stanley Hotel in Colorado e quel che vediamo al cinema è il risultato di esterni girati all’albergo Timberlin Lodge sul monte Hood in Oregon e interni ricostruiti sul set degli Elstree Studios di Londra. Aperto nel 1910 sulla catena montuosa del Colorado, il grande albergo fu periodico teatro di stragi, suicidi, bagni di sangue e regolamenti di conti, al punto da divenire lui stesso una gigantesca entità maligna – ancora l’Homigon – in grado di possedere il povero Jack Torrance e di autorigenerarsi, nonché di gestire al suo interno tempo, spazio e “visioni”. Anche nella versione televisiva sceneggiata e prodotta da King per la regia di Mick Garris, l’Overlook è un’efficace e mastodontica haunted house, ma stavolta si tratta del vero albergo ispiratore, il succitato Stanley Hotel.

Fra le case degli “episodi minori” (si fa per dire…) c’è quella, suggestiva e funzionale, degli anni Quaranta (un bianco e nero splendido e struggente), che conosciamo come La casa sulla scogliera, azzeccato titolo italiano per The Uninvited (1943) di Lewis Allen (film che vanta pure un sequel misconosciuto, The Unseen, ancora firmato da Allen, uscito l’anno successivo), opera che si rivede con tenero affetto e che codifica un modello con cui fare i conti se ci confrontiamo con pellicole  come Scarlatti di Frank La Loggia (1988), Le verità nascoste di Robert Zemeckis (2000) o The Haunting di Seacliff Inn di Walter Kenhard, quest’ultima distribuita nel ’94 con lo stesso titolo del classico di Allen: ovvero, una casa isolata a ridosso del mare, un oscuro passato da decifrare, pochissimi personaggi in carne e ossa, percezioni spaventose e soprattutto fantasmi evanescenti. Se percorriamo a volo radente la storia del cinema horror, si verifica con facilità che il modello non è stato poi così abusato. Se poi avvertiamo profumo di Daphne Du Maurier e della sua nebbiosa e magica Cornovaglia, non sbagliamo. Dorothy Macardle, scrittrice e storica irlandese spentasi nel ’58 e autrice di Uneasy Freehold, romanzo da cui si trasse il film, era una grande ammiratrice della più illustre collega inglese cui si devono titoli indimenticabili, poi divenuti film, quali Rebecca, Gli uccelli e Non guardare adesso (il film A Venezia un dicembre rosso shocking di Nicolas Roeg), i primi due con ambientazione “a picco sul mare”.

Oliver Onions – pseudonimo dello scrittore inglese George Olivier (1873-1971) – pubblicò A Beckoning Fair One nel 1911, un racconto è conosciuto in Italia grazie a una fortunata raccolta curata da Fruttero e Lucentini nell’ormai lontano 1960. Tradotto con il titolo La bella adescatrice, vi si narra di uno scrittore di scarso successo la cui vita viene progressivamente distrutta dalla casa in cui sceglie di andare ad abitare. E in questo la magione del racconto diviene paradigmatica al tema di cui stiamo trattando. La casa ospita infatti una particolare presenza,  che invece di aggredire e terrorizzare il protagonista, sceglie di sedurlo e di “svuotarlo” sino a isolarlo dal mondo circostante. Nel 1968, complice il periodo storico (poco adatto ai fantasmi del gotico, a essere sinceri) e il trattamento di Tonino Guerra ed Elio Petri, il film tratto dal racconto di Onions diventa una parabola sull’alienazione dell’intellettuale che, per dirla con parole dello stesso Petri, “fugge verso i fantasmi della cultura romantica” per evitare l’omologazione artistica. Non spariscono né la casa maledetta né il fantasma di turno (anche se sono altra cosa rispetto al racconto di Onions), ma il film è freddo, algido e “fuori genere”.

Per quel che riguarda il celeberrimo libro di Blatty dal quale Friedkin trasse una pietra miliare della storia del cinema horror, non ci si dimentica che, dopo lo straordinario preludio in pieno sole girato in Iraq (zeppo  di rabbrividenti presagi sul nostro presente…), la vicenda di Regan MacNeil è quasi tutta ambientata dentro una casa, quella in cui vive da poco tempo con la madre Chris, famosa star del cinema. “Una casa presa in affitto ammobiliata. Tetra. Opprimente. Una costruzione in mattoni, stile coloniale, arabescata da tralci d’edera, in quel settore di Washington – distretto federale della Columbia – chiamato Georgetown”. È una costruzione realmente esistente con tanto di inquietante e notissima scalinata sottostante forte di 97 scalini lì ancora chiamati “the exorcism steep steps”, laddove alla fine del film trova la morte Padre Karras (prima del ’73, era conosciuta come la “scalinata di Hitchcock”!). Per quanto non sia tecnicamente una haunted house in senso classico, questa casa situata al n° 3600 di Prospect Avenue – nella quale proprio Blatty abitò per diverso tempo mentre frequentava la Georgetown University – partecipa graficamente e sostanzialmente all’escalation demoniaca della storia. Per la parte grafica basterebbe ricordare due indimenticate locandine del film – quella ufficiale con Padre Merrin fermo di fronte all’ingresso e quasi colpito da un fascio di luce diabolica proveniente dalla hell house e un’altra, poi scartata per la distribuzione ma apparsa su qualche rivista specializzata, in cui compare la finestra della camera da letto di Regan con le persiane aperte e le tendine svolazzanti -, mentre per quella tematica si annota che le prime manifestazioni di Capitan Howdy (il nomignolo del demone così chiamato dalla ragazzina, trasformato nel doppiaggio in Capitan Gaio) avvengano in soffitta per poi concentrarsi nella famosa bedroom, restringendo il teatro dell’irrazionale alla porzione di casa più significativa sotto il profilo della pulsionalità e della tradizione dei “demoni intrusi”. Da Dracula agli Incubi, infatti, passando per streghe, fantasmi e, in tempi più recenti, ai presunti alieni che rapiscono gli umani, la violazione dello spazio più intimo e teoricamente inviolabile della casa rappresenta in realtà l’irruzione del Perturbante freudiano nella cultura moderna. Anche se la psicanalisi non basta da sola a dare “corpo” al fenomeno dei bedroom invader, quella camera da letto – divisa dal resto della casa da una “porta chiusa” sulla quale potremmo sprecare i riferimenti letterari e filmici, sino a ipotizzare un virtuale sottofilone di “orrori” celati dietro le porte… – segna l’avvio e il riferimento per numerosi horror “da camera” che verranno da lì a poco: dai titoli del filone esorcistico propriamente detto (Chi sei? L’ossessa, La casa dell’esorcismo) a episodi meno definibili quali Patrick, e Il tocco della Medusa per giungere ai successivi Paranomal Activity, arrivando sino a oggi con il rilancio  del filone esorcistico (L’esorcista del Papa, Gli occhi del Diavolo e L’esorcista – Il credente). Va menzionato infine che la casa di Georgetown, per colpa delle bizzarrie non sempre in sincrono della serializzazione, viene filmicamente rasa al suolo nel finale de L’esorcista 2 – L’eretico di John Boorman per poi ricomparire per pochi secondi all’inizio de L’esorcista 3, diretto dallo stesso Blatty e tratto dal suo romanzo Legion (in Italia, Gemini Killer).

Invece The House Next Door, tanto il libro quanto il film, è titolo inedito per l’Italia. Ed è un vero peccato, soprattutto per il libro. La Siddons è una scrittrice southern gothic assai evocativa e affascinante (anche se a certi suoi colleghi, come Al Sarrantonio, non piace) e riesce nel non facile compito di rendere tangibile un Male invisibile cresciuto all’interno di una casa appena costruita. Un autentico capolavoro, datato 1978 e per misteriose quanto non condivisibili ragioni mai tradotto da noi, dove si coglie l’essenza subliminale di un’infestazione avvolgente e strisciante come in ben pochi altri testi del genere. Ne è stato tratto un film televisivo, Il mistero della porta accanto, uscito nel 2006, di Jeff Woolnough, purtroppo lontano anni luce dallo stupendo modello. Più che censura, una sorta di autorimozione che non trova un perché.

Sin qui la fantasia degli scrittori. Ma le case infestate, non dubitatene, sono un autentico patrimonio dell’umanità. Si trovano ovunque, di qua e di là del globo, e spesso si tratta solo di case abbandonate attorno alle quali sono cresciute storie sul confine tra cronaca e folclore. Da noi innanzitutto occorre scremare la mappa dalla presenza dei castelli in quanto l’Italia ne è piena e ogni maniero ne vanta uno, vero o falso che sia, spesso abbinato a una leggenda di fondazione. Le case che più hanno conosciuto le “luci della ribalta” sono: la Cà delle Anime, a Voltri (Genova), un tempo locanda i cui gestori uccidevano i clienti; la Casa del Violino, a La Spezia, abitata un tempo da un violinista e naturalmente si odono gli echi di un concerto dall’aldilà; la Malcontenta, tra Padova e Venezia, lungo il Brenta, abitata da uno spettro femminile chiamato la Dama Bianca; Villa Magnoni a Cona, vicino a Ferrara, dalla quale nottetempo si odono risate di ragazzi morti verso la fine degli anni Ottanta; la scuola elementare della Croara a San Lazzaro di Savena (Bologna), infestata si dice dal fantasma di un giovane alunno morto precipitando dalle scale; la celeberrima Cà Dario a Venezia, legata a una lunga catena di disgrazie e di suicidi; la “casa della morte” nella campagna di Doberdò (Gorizia), maledetta secondo la gente del luogo a causa della morte simultanea di due neonati gemelli alla fine degli anni Cinquanta, una sorta di nemesi che ancora si prolungherebbe con una serie di turpi disgrazie che continuano a verificarsi nella zona.

Personalmente nella mia regione, il Piemonte, ne conosco qualcuna. Oltre alla celeberrima Villa Pastore in Pecetto di Valenza, che ho visitato più volte – anche in un recente documentario di Alessandro Scillitani e Mirella Gazzotti Case abbandonate –, antica magione legata alle premature scomparse di due bimbi a distanza di una decade l’uno dall’altro, dalla quale decine di testimoni affermano di avere sentito levarsi le note notturne di un pianoforte, posso testimoniare della vercellese villa Destefanis, a pochi passi dalla stazione ferroviaria, sotto le cui fondamenta giacerebbe sepolto un intero drappello di soldati austriaci passati all’arma bianca durante le guerre del Risorgimento. Poi ci sono la Cà Dania a Mombercelli abitata dal fantasma di una strega, l’albergo delle vedove a Strevi (dopo sette morti violente di altrettanti proprietari, nessuno lo vuole più riaprire…), il fantasma di Mara Cagol a Cascina Spiotta nell’Acquese, gli spiriti degli amanti suicidi nel villaggio abbandonato di Reneuzzi, laddove s’ipotizza non più una sola casa a essere infestata, ma un intero borgo.

Dopo anni che ci vivo, ho casualmente scoperto che esiste una vera haunted house a un paio di chilometri da casa mia, una zona chiamata un tempo “la Mascoia” (da “masca” che significa “strega”). È la Cascina delle Streghe, dove due noti vagabondi ai primi del Novecento si rifugiarono per la notte: gli abitanti dei cascinali vicini udirono per ore urla str azianti provenire dal fabbricato, ma al mattino non c’era traccia dei due malcapitati. Purissimo Blair Witch Project, e in certe notti di vento sembra proprio che la casa stia gridando. E a pochissimi chilometri dalla Casa Urlante – non potevo abitare che qui… – esiste il “Cascinotto degli spiriti”, dove decine di testimoni anni addietro testimoniarono di tavole traballanti e sospese a mezz’aria, di letti in verticale che non ce la facevano proprio a riposizionarsi e di persone in fuga in preda al terrore nel cuore della notte. Sembra un film, vero? Ma, nel caso delle haunted house, c’è il fondato sospetto che la vita sia proprio come un film.