Case d’inferno (1) [Il Superstite 515]

ATO6: "Crisi idrica, i cittadini siano più parsimoniosi con l'acqua" CorriereAl 1

di Danilo Arona

Come  dimostrano gli ultimi, ottimi prodotti seriali di Mike Flanagan per piattaforma, The Haunting of Hill House, The Haunting of Bly Manor, La caduta della casa degli Usher, il sottofilone gotico della Casa Infestata accomuna in quanto a retroterra letterario nomi che sono, fra tradizione e modernità, autentici monumenti della narrativa tout court. Sintetizzando: Edgar Allan Poe per Il crollo della Casa degli Usher, Shirley Jackson per La casa degli invasati, Henry James per Giro di vite, Richard Matheson per La casa d’inferno, Stephen King per Una splendida festa di morte e Doctor Sleep (nonché qualche altra digressione come Il diario di Ellen Rimbauer, prequel del TV movie Rose Red) e Jay Anson per Orrore ad Amityville: un elenco non esaustivo, ma essenziale, che dimostra come il tema della “Casa” sia il vero cuore pulsante dell’horror di ogni tempo, all’interno del quale riusciamo pure a cogliere episodi solo all’apparenza minori, ma niente affatto secondari (La bella adescatrice di Oliver Onions, Uneasy Freehold di Dorothy Macardle, L’esorcista di William Peter Blatty, The House Next Door di Anne Rivers Siddons e Burnt Offerings di Robert Marasco).

È interessante verificare come in questo elenco non sia strettamente necessario l’elemento ectoplasmatico perché la magione si presenti come “infestata”. Già Poe trascurava questa pista per dichiarare per bocca del tormentatissimo Roderick che “la forma e la sostanza” di Casa Usher erano in grado di esercitare un influsso letale su coloro che l’abitavano anche per breve tempo. Un’affermazione di claustrofobica paranoia che peserà come un macigno su molti titoli in divenire all’interno dei quali la casa stessa si comporta come un’entità vivente. Casa Usher infatti fornisce un modello ineludibile, ovvero l’osmosi maligna e autodistruttiva fra la casa e il suo “abitatore” con i fantasmi che, prima che in ogni altro luogo, risiedono nelle menti. Questo quantum energetico – l’insieme delle energie impalpabili ed eteriche che scaturiscono dall’incontro tra la casa/entità e coloro che la occupano – viene chiamato, nel linguaggio esoterico, “Homigon” e può, a seconda delle casistiche, presentarsi come positivo o negativo. Mai nominato al cinema, ma soltanto magicamente intuito dagli autori più affini alla sensibilità gotica (nel nostro elenco, su questo fronte primeggiano Corman, Wise e Dan Curtis), l’Homigon è il vero motore che anima le case viventi, dall’antesignana Casa Usher al mastodontico Overlook Hotel di King.

Il testo di Poe (al quale per cronaca dobbiamo aggiungere due sequel apocrifi, Ritorno a Casa Usher di Amos Poe e La maledizione degli Usher di Robert McCammon) è, come dicevamo, il modello dal quale non si può prescindere. La straordinaria intuizione dell’eretico scrittore di Boston sull’osmosi energetica, occulta e mai per fortuna spiegata, tra la casa e Roderick (una corrente, un “clima” peraltro in grado di raggelare anche gli occasionali ospiti) si dispiega nella progressione descrittiva della “rovina” avanzante e preludente al crollo finale, il tutto in simbiosi perfetta con la degenerazione psichica e l’inquietante metamorfosi del padrone di casa. Perfettamente visualizzata da Roger Corman in quanto allegoria dell’inconscio – nei recessi più profondi della Casa degli Usher si intuiscono tortuosi budelli, oscuri corridoi, labirinti interminabili e inquietanti sale di tortura -, la pellicola che abbiamo conosciuto come I vivi e i morti resta al di là di ogni dubbio una delle più mirabili adesioni al mondo poco filmico di Poe e la migliore trasposizione da un basico testo che vanta nella storia del cinema, a partire dal 1928, una decina di adattamenti, quasi tutti dimenticabili tranne quello classico muto, il “primo”, di Jean Epstein.

L’archetipo della casa vivente peraltro è ben presente nel celeberrimo Shining di Kubrick, in cui l’immensa cascata di sangue scaturente dall’ascensore allude alla rovinosa mestruazione del luogo “femminile”, ma neppure viene trascurato nella versione televisiva di Mick Garris, sceneggiata dallo stesso King, quando assistiamo alle “autoricostruzioni” dell’albergo dopo i periodici danni subiti a causa dell’instabilità mentale degli “ospiti”. Un finale in ogni caso saccheggiato da quello di Ballata macabra di Dan Curtis, di cui diremo tra poco.

King peraltro non ha mai fatto mistero che Casa Usher resta, con la Hill House di Shirley Jackson, la fonte di ispirazione più diretta per le sue case infestate. Il romanzo – in Italia uscito più volte con almeno due titoli diversi (La casa degli invasati e L’incubo di Hill House) – ha visto due versioni cinematografiche ben rappresentative del periodo storico di realizzazione, più quella televisiva di Flanagan. La prima, di Robert Wise, datata 1963, in un bianco e nero straniante, ambigua e rispettosa dell’impostazione dell’autrice che decise di non sciogliere il mistero della vecchia villa Crain, contro la seconda di Jan de Bont del 1999, fracassona, a colori e con eccesso di morphing e di spiegazioni posticce. Titoli italiani: Gli invasati e Haunting – Presenze.

Tra le case viventi spicca senza dubbio la dimora-vampiro di Ballata Macabra, firmato da Dan Curtis nel 1976, tratto dal romanzo Burnt Offerings di Robert Marasco, autore di New York tradotto solo di recente in Italia proprio con questo romanzo intitolato da Mondadori Offerte sacrificali, spentosi prematuramente nel 1988. Anche qui non troviamo fantasmi nel senso classico del termine, ma un Homigon invadente e metamorfizzante che invade la nuova e bella padrona di casa (Karen Black, signora dell’horror di quel periodo), trasformandola fisicamente nell’antica proprietaria della sinistra magione. Il tutto a favore della casa che deve succhiare linfa vitale dai corpi dei suoi periodici ospiti. E mantenersi solida e “nuova” nella struttura.

Un’altra casa famosa, in tanto elenco di archetipi, è Bly House, la dimora-contenitore della ghost story per antonomasia del tardo vittorianesimo, Giro di vite di Henry James. Non tesseremo mai abbastanza le lodi di questo racconto lungo, capolavoro sull’ambiguità percettiva del reale, che ha fornito al cinema ben più materiali di quanto non lascino intendere le versioni ufficiali. Che non sono affatto poche: ufficialmente più di venti, tenendo conto delle diverse versioni televisive, ma quelle viste in Italia sono solo quattro, Suspense di Jack Clayton del 1961, Improvvisamente un uomo nella notte di Michael Winner del 1972, Presenze di Rusty Lemorande del 1992 e il film televisivo Il mistero del lago di Marco Serafini, apparso sulle reti Mediaset nel 2008. Delle quattro soltanto la prima viene ricordata per la congrua forza suggestiva “alla James” e, guarda caso, solo in questa la casa assume una sua funzionale valenza di protagonista, al pari dei due lugubri revenant che ossessionano Miss Giddens. Si tratta di una splendida villa gotica di Sheffield Park, nell’East Sussex, fotografata in modo sublime da Freddie Francis e infestata alla pari dell’anima della governante, interpretata da un’isterica quanto perfetta Deborah Kerr. Con Gli invasati di Wise, Suspense è ancora oggi un classico che il cinema gotico, soprattutto il nascente horror italiano degli anni Sessanta, ha omaggiato in modo neppure troppo manifesto. Ed è proprio Mario Bava, di cui più di un film pare non volersi liberare del fantasma jamesiano (chi ci ricordano i due bimbi pestiferi di Reazione a catena, se non i rabbrividenti Flora e Miles di Giro di vite?), che presenta nel 1966 una delle sue opere più incisive e personali (per quanto mortificata da un pessimo titolo allora modaiolo “alla Bond”), Operazione paura, ambientato in una sinistra villa dove imperversa lo spettro di Melissa, bambina-fantasma sempre annunciata da una palla che rimbalza con lentezza nel campo visivo. Questa immagine segna a tal punto nel profondo l’immaginario di tanti autori che, con una sorta di effetto eco, riappare in diverse opere successive in un gioco citazionistico che dura da più di quarant’anni. Comincia un anno dopo Fellini, che se appropria bellamente per il suo stupendo episodio Toby Dammit, il terzo del trittico tratto da Poe Tre passi nel delirio, e ne ritroviamo il simulacro ne La casa di Mary di James Robertson (1996), in Paura.com di William Malone (2002), in Nave fantasma di Steve Beck (2002) e in Dark Water di Hideo Nakata (2002).

Chiedendo scusa per la digressione, torniamo alle nostre haunted house di provenienza letteraria. E dopo l’immortale Bly House, veniamo a Villa Belasco, un altro omaggio alla Hill House della Jackson, questa volta firmato dal grandissimo Richard Matheson e portato sugli schemi nel 1973 da John Hough. Titolo italiano del romanzo, La casa d’inferno, e titolo del film Dopo la vita. Lo schema d’approccio della Jackson è palesemente omaggiato fino a specchiarsi nel gruppo di investigatori “parafisici” che vengono ingaggiati per indagare su una delle case più infestate del pianeta, la Hell House appartenuta al temibile Emeric Belasco. Il film, sceneggiato dallo stesso Matheson, è purtroppo appesantito dalla fiacchezza registica di Hough, altrove decisamente più ispirato (es. l’ottimo Hammer Le figlie di Dracula del ’71), ma il soggetto, al contempo classico e di svolta (le motivazioni a monte dell’infestazione che risiedono nella bruttezza di Belasco, uno spot che ha deluso parecchi spettatori), con tutta una serie di varianti tipiche del periodo, come le “possessioni” che liberano l’energia sessuale repressa ma anche l’ira e il furore.

(Continua)