Le visioni del terribile – La Medusa al tempo di Instagram [Il Superstite 511]

ATO6: "Crisi idrica, i cittadini siano più parsimoniosi con l'acqua" CorriereAl 1

di Danilo Arona

Un antico e affascinante articolo di Marco Teti, pubblicato sulla rivista Gorgon (Rivista di cultura polimorfa, Sabbatica Edizioni 2009), Loschermo che pietrifica – La visione del terribile tra Ring e la Gorgone, dimostra singolari e significative assonanze con alcune tesi che da anni il Superstite vi propone nella sua rubrica. Qui Teti offre ai lettori un paragone quanto mai condivisibile, tra il personaggio di Sadako (trasformato in Samara nel remake americano di Ringu) e la mitologica Medusa, la celeberrima Gorgone dallo sguardo che pietrifica. Operando una sintesi di quel che interessa in questo contesto:

«Medusa, nella sua accezione più nota, incarna al contempo l’esasperato desiderio di vedere e la sua sanzione. Da lei non si possono distogliere gli occhi… La particolarità del romanzo scritto nel 1991 da Suzuki Koji consiste nella ripresa quasi letterale del personaggio di Medusa. Un personaggio che pare non avere equivalenti in Giappone. Una figura insomma estranea alla cultura nipponica che però s’incarna in un Onryo, per l’esattezza nel fantasma di un essere dalle eccezionali capacità che si chiama Sadako.»

Non manca Teti di ricordare la distanza abissale tra gli universi mitologici di riferimento, l’uno che si rifà all’antica Grecia e l’altro alle credenze del folklore giapponese, così come in ambedue i casi il primo, superficiale approccio ci ricorda ancora una volta i pericoli e la peculiarità del guardare, considerando la “visione” come il Tabù per eccellenza. Un potere ereditato in Medusa da una magica transmutazione dopo la violenza subita da Poseidone nei pressi del tempio di Atena e potere, per Sadako- Samara, trasmessole dalla madre, donna di smisurati poteri extrasensoriali, in grado di trasformare la stessa visione in un virus per colpa di un’impossibile sintesi tra un morbo reale e percezioni perturbanti.

«Scendendo più in profondità si riscontra la vicinanza di queste due figure anche sul piano simbolico. In questo senso è alquanto eloquente, a nostro avviso, il fatto che i malcapitati che si imbattono in esse muoiano rimanendo pietrificati. E poco importa che nel caso di Sadako si abbia a che fare non con una pietrificazione letterale, bensì con una figurata, visto che per le sue vittime la morte sopraggiunge in seguito a uno spasmo cardiaco i cui effetti rasentano la pietrificazione. In definitiva, i casi di entrambi i personaggi invitano a riflettere sullo statuto della visione e sulle peculiarità dell’atto di guardare, nonché sui pericoli che vi sono connessi.  Dando vita a un’operazione metalinguistica di grande efficacia, Suzuki opta addirittura per l’adozione, a più riprese, del punto di vista di Sadako e concede contemporaneamente al lettore e a alcuni personaggi la possibilità di guardare attraverso gli occhi (e la mente) della ragazza. Il video maledetto che rappresenta il fulcro narrativo di Ring raccoglie infatti ricordi personali di Sadako e immagini generate dalla sua mente. Rifacendosi al mito di Medusa, Suzuki articola quindi la trama del proprio romanzo intorno alle insidie della visione e al bisogno di vedere, sentito come impellente (nonché congenito) e vissuto come una fisiologica necessità.»

Echeggiano antiche parole, vergate nel 1977 da Franco La Polla (Il terroree lo sguardo, Cinema & Cinema n° 13), ovvero: «La paura è la coscienza di essere guardati… se il cinema dell’orrore è cinema della mancanza dell’osservatore, tutto il cinema è cinema dell’orrore, in quanto perturbante messa a nudo del vuoto di chi crede di osservare essendo invece sotto l’occhio costante di chi riteniamo oggetto di sguardo», ma le considerazioni di Teti appaiono tanto più notevoli quanto limitate alla sola analisi della parola scritta, ovvero il testo di Suzuki Koji. Allora da qui vorremmo partire, fatta nostra l’analogia tra Sadako/Samara e la Gorgone, per constatare come le due versioni filmiche, la nipponica e l’americana, siano state in grado di trasfigurare le specifiche paure dell’antica Grecia in maniera così sottile da essere codificate “in sottotraccia”. E in un passaggio non casuale: le visioni – che sono al contempo analogiche e differenti – della famosa “videocassetta assassina”, sbeffeggiate senza pietà in Scary Movie 3.

Se il mito di Medusa, che del tabù della visione è il principio universale, viene riprodotto in ambedue i frammenti dal tema dello specchio (in cui la madre di Sadako-Samara si sta specchiando mentre si pettina), occorre non dimenticarsi che detto tabù visivo è anche, se non soprattutto, tabù “uditivo”.

Medusa infatti non vanta soltanto la folgorazione dello sguardo, ma come annota Jean-Pierre Vernant ne La morte negli occhi (Il Mulino, 1987), possiede pure terrificanti espressioni sonore.

«Un suono gutturale, un urlo animale che usciva dalla gola, con un possente respiro e che richiedeva una bocca spaventosa. Sappiamo da Pindaro che dalle mascelle vorticose delle Gorgoni lanciate all’inseguimento di Perseo si alza uno strepito lamentoso e che queste grida escono ad un tempo dalle loro bocche di fanciulle e da quelle degli orribili serpi a loro associati. Questo grido acuto, inumano è quello che nell’oltretomba urlano i morti dell’Ade.»

Altre sonorità inquietanti caratterizzano l’esistenza di Medusa e delle sue sorelle. Gemiti, latrati di cani, digrignar di denti, fragore di zoccoli che martellano la terra. Si potrebbe dire: il repertorio del demoniaco animalesco quasi al gran completo. Accompagnato dalla “musica del terrore”, quella del flauto che, per sua natura, è lo strumento della trance, del furore orgiastico, del delirio, dei riti e delle danze di possessioni.

Allora andiamo alle “visioni proibite” dei due film, ma soffermiamoci anche sulle sonorità allegate. Che udiamo? Tutto quello che è stata nel pregresso reame dell’immaginario la sonorità medusea, ovvero: gemiti, sibilar di serpi, canti macabri di fanciulle (persino un frammento sonoro proveniente dal mitico Suspense di Jack Clayton…), strepiti ed effetti sonori tipici del genere horror, gli strani rumori dal cielo, gorgoglii, infrasuoni, il trillo del telefono – quello che ha ancora da squillare – sotto la soglia dell’udibile. E altro ancora, più strettamente in sincrono con le immagini “letali”.

Tutto questo, per quanto spontaneamente casuale, non è affatto ovvio. E soprattutto ci ricorda che la visione può essere tale – perciò potenzialmente pericolosa – soltanto se corredata della sua controparte sonora. L’ebbrezza perturbante e il disordine cosmico, provocati dalla Alterità assoluta, acquisiscono senso specifico soltanto se sincronizzati in un contesto artistico, perciò fittizio, di un libro e di un film. Ma tanta e logica organizzazione estetica è da tempo schizzata fuori dalla cornice dello schermo.

Da anni, dall’America alla Finlandia, dalla Norvegia all’Italia, non pochi mass murderer (lo spaventoso e disgustoso Anders Behring Breivik tra gli ultimi), prima di passare all’azione, si sono filmati dichiarando al mondo propositi e “filosofie” e facendo vedere soprattutto le varie armi che avrebbero utilizzato per le stragi. E hanno trasmesso ignobili propositi di “divenire leggenda”, postando i video su YouTube a altri portali. Come ha scritto un acuto blogger sul sito di Cinemavvenire www.cinemavvemire.it/peeping-tom/, «l’illusione di immortalità che permea l’esperienza scopica legata all’atto del filmare, a volte è l’anticamera del sonno della ragione; e la “YouTube-era”, in cui il reale somiglia sempre più alle suggestioni dei suoi simulacri, porta con sé anche scorie come queste. Come in un incubo di David Cronenberg, il feticcio si sostituisce alla carne, diviene esso stesso carne, ne eredita funzioni e modalità di rappresentazione: e per chi cade in questo abominevole loop percettivo, la vita stessa non è altro che un malaugurato incidente, da annullare con ogni mezzo.»

Per trovare un senso alle “paure di essere guardati dagli oggetti e dagli schermi in cui siamo contenuti” (Irene Roublef, 1976), occorre allora  tornare di nuovo al cinema e soffermarci sul poco conosciuto, ma importante, cortometraggio Rings (Jonathan Liebesman, 2005), i cui eventi fanno da ponte fra i 2 Ring americani. Qui assistiamo, notevolissima intuizione visti quasi vent’anni che ci separano da quel corto, alla nascita di gruppi di ragazzi che si fanno chiamare Rings e che volontariamente si sottopongono alle visioni per vedere fino a che punto (il settimo giorno) possono arrivare. Il breve film è chiarissimo nella sua parabola, simbolica e non solo: il Reale dei Rings si contamina progressivamente di intrusioni visive (le Gorgoni che ti uccidono con lo sguardo) e di sonorità inspiegabili. Appurato che i virus in espansione si possono evitare soltanto con il passaggio di consegne, non ci resta che confrontarci con un reale reso infetto da immagini alterate e da suoni provenienti da altri mondi. Peraltro i capelli serpentini di Medusa si facevano presentire attraverso “sibili disumani che raggelavano i cuori”.

Se ne potrà sorridere, ma certe orripilanti immagini di Instagram che fissano la Morte la lavoro mi ricordano proprio il “passaggio di consegne” di cui i Rings erano portatori un bel po’ di anni fa.