di Mauro Remotti
A quasi un anno di distanza dalla vittoriosa battaglia del 25 luglio 1391 (giorno di San Giacomo) combattuta alle porte della città contro l’esercito francese guidato dal conte Giovanni III d’Armagnac[1], ad Alessandria scoppiò una rivolta a causa di un forte aumento del dazio sulla farina imposto dall’esoso governo visconteo.
Alla fine del Trecento, la signoria di Gian Galeazzo Visconti era senza dubbio la più potente d’Italia e comprendeva diverse città del territorio alessandrino (Alessandria, Tortona e Valenza). Le entrate ordinarie oltrepassavano il milione di fiorini d’oro, ma le frequenti guerre sostenute nel corso della seconda metà del secolo XIV contro Firenze e il papato costringevano a un inasprimento della pressione fiscale mal sopportata da una popolazione già stremata da carestie, alluvioni ed epidemie.
Lo storico Girolamo Ghilini annota negli Annales un velleitario tentativo di far rientrare la ribellione da parte degli aristocratici locali, i quali, al contrario, parteggiavano per i Visconti da cui ricevevano privilegi e prebende (in particolare le famiglie Ghilini e Trotti).
In un primo tempo, la folla inferocita al grido “Alessandria e libertà, morte al Duca e agli affamatori” tentò l’assalto ai magazzini del pane per poi dirigersi verso Palatium vetus (sede del Comune). Infine, i rivoltosi entrarono al piano terreno della torre campanaria dell’antico Duomo di Alessandria dove si trovava l’ufficio delle gabelle, ma anche l’archivio della città in cui erano custoditi statuti, trattati, convenzioni, atti notarili e giudiziari, descrizioni dei confini, libri figurati e del catasto. I soldati di guardia non opposero resistenza, anzi sodalizzarono con i sovversivi.
I documenti furono accatastati nella Platea Maior (l’attuale piazza della Libertà) e bruciati al fine di eliminare i registri fiscali. «In tal modo continuarono a pagare le tasse ma distrussero molti documenti della loro storia più antica» sottolinea, con tipico sarcasmo mandrogno, Fausto Bima[2]. Infatti, nel rogo perirono anche atti fondamentali per ricostruire i primi secoli di vita cittadina e degli ultimi cento anni del dominio milanese[3]. Anche il Liber Crucis – il liber iurium della città, una delle fonti più preziose per lo studio del periodo medioevale alessandrino – risulta pressoché privo di riferimenti documentali circa il periodo 1228-1292.
A tutta prima, la ribellione potrebbe ricordare il “Tumulto dei Ciompi”[4] avvenuto a Firenze tra il giugno e l’agosto del 1378. In realtà, alla base della protesta degli alessandrini non vi erano particolari rivendicazioni sociali o politiche, ma soltanto un diffuso malcontento contro il drenaggio fiscale che veniva gestito direttamente da funzionari milanesi: soprattutto imposte indirette (dazi, pedaggi e gabelle), ma spesso anche taglie, ossia tributi diretti sui patrimoni cittadini. «Per far fronte alle grandi spese militari Gian Galeazzo nel 1389 ricorse all’estimo per le taglie. Questo estimo fu detto di XXIV cittadini e fu costituito anche in Alessandria negli anni novanta. Tutti i cittadini dovevano denunciare i loro beni ad alcuni stimatori eletti da trentasei rappresentanti di ogni quartiere (12 per ognuna delle tre fasce di reddito), nominati a loro volta dagli Anziani». [5]
La sedizione, che «testimonia come non fosse mai venuta meno da parte della comunità locale un’ostile diffidenza nei confronti della dominazione viscontea»[6], si spense rapidamente, prima ancora dell’arrivo di cinquecento soldati a cavallo mandati dal duca di Milano.
Il timore di nuove sommosse spinse i Visconti a far erigere una cittadella militare (nell’area dove ora sorge piazza Matteotti), inaugurata nel 1402, che consentisse alla guarnigione di controllare meglio la città.
[1] Vedi: Mauro Remotti, La battaglia di Alessandria del 25 luglio 1391, pubblicata su CorriereAL il 4 luglio 2018.
[2] Fausto Bima, Storia degli Alessandrini, 1965.
[3] Una spontanea sommossa popolare scoppiò anche nella vicina Valenza. Analogamente a quanto accaduto ad Alessandria, venne bruciata tutta la documentazione presente nel Palazzo comunale, privando così la città di ogni fonte storica del proprio passato.
[4] Venivano appellati Ciompi i salariati delle diverse Arti, in particolare quelli della lana. Vessati da una pressione economica e sociale, si ribellarono e presero il controllo di Firenze insediando nel palazzo dei Priori un loro sindaco. Elaborarono una riforma per creare tre nuove Arti del popolo minuto con diritto a un terzo delle magistrature. A fine agosto, la reazione delle altre Arti coalizzate costrinse molti dei Ciompi a lasciare Firenze; gli altri restarono isolati e l’insurrezione fu soppressa nel sangue.
[5] Fausto Miotti, Lineamenti di storia alessandrina, 1998.
[6] Lorenza Lorenzini e Marco Necchi, Alessandria storia e immagini, 1982.