di Mauro Remotti
A Torino, nella seconda metà del XVIII secolo, fece molto scalpore la notizia dell’avvenuta falsificazione di biglietti di credito[1]. L’autore della frode si rivelò essere il conte Carlo Maria Stortiglione (o Stortiglioni) dei Lobbi.
Discendente dell’antica famiglia patrizia degli Stortiglioni[2], ereditò dalla madre, Teresa Mandrini (o Mandrino), la giurisdizione feudale sulla borgata di Lobbi, a pochi chilometri da Alessandria.
Compiuta la pratica legale presso l’Avvocatura dei Poveri, il re sabaudo lo nominò, nel 1750, consigliere di commercio. In questa veste, fu inviato in Olanda per acquistare la carta su cui stampare i biglietti di credito (una via di mezzo tra banconote e obbligazioni).
Carlo Emanuele III di Savoia[3] fu, infatti, il primo sovrano italiano ad autorizzare l’emissione di Biglietti di credito, li quali debbino ne’ Stati nostri avere lo stesso corso, come se fossero di effettivo danaro contante. La prima emissione, per un importo complessivo di 4 milioni di lire (con valori facciali di 100, 200, 500, 1.000 e 3.000) era destinata soprattutto al reperimento di fondi per fronteggiare le spese causate dalla partecipazione alla guerra di successione austriaca. Ne seguirono altre con valori sempre più piccoli che meglio si prestavano alla loro circolazione.
Con un sotterfugio, Stortiglione riuscì a comprare per sé una rilevante quantità di fogli della medesima carta. Si avvalse quindi dell’opera del falsario vercellese Vincenzo Larini (o Lavini)[4] che realizzò dei biglietti di credito pressoché identici agli originali, in particolare i tagli da 50 e 100 lire (emissione del 1 aprile 1760)[5].
Da quel momento, la consorte Eleonora, rampolla dei conti di Saint Front, iniziò a fare eccessivo sfoggio ricchezza (il tenore di vita dispendioso fu disapprovato perfino dal re), invitando nel suo lussuoso appartamento le più altolocate famiglie torinesi.
Qualche tempo dopo, un controllo compiuto dall’Ufficio Generale delle Regie Finanze fece venire a galla l’inganno. Fu subito evidente che il notevole quantitativo di biglietti falsi messi in circolazione stava provocando rilevanti danni all’economia dello Stato[6].
Vennero avviate le indagini per risalire ai colpevoli, e promessi premi ai delatori. Carlo Maria Stortiglione, preso dal panico, confessò ogni addebito. Fece anche il nome del suo complice, che nel frattempo era fuggito a Parigi.
I beni personali del nobile furono venduti all’asta, ma si rilevarono insufficienti a coprire l’importo delle contraffazioni. Con un atto di magnanimità, Carlo Emanuele III decise che tutti i biglietti falsi venissero comunque rimborsati, accollandosi personalmente l’onere dell’importo mancante[7].
Al termine del processo, i due imputati furono condannati a morte. «Le tre classi del senato ragunate alle ore 3 pomeridiane fino alla mezzanotte hanno condannato il conte Carlo Maria Stortiglioni al taglio della testa e Vincenzo Larini ad essere appiccato» racconta Pietro Civalieri.[8]
Il re, tenendo conto della confessione spontanea fornita dallo Stortiglione, gli commutò la pena nella «cattività perpetua», ossia gli arresti domiciliari a vita, che scontò nel castello di Ceva. Lo storico Domenico Cerutti così descrisse il conte falsario: «uomo di destre maniere, bello ed artifizioso favellatore, non ricco e desideroso di comparire e di far comparire la moglie».
Curiosamente, circa un secolo più tardi, si diffonderà una leggenda popolare, per certi versi somigliante alla vicenda di Carlo Maria Stortiglione, che vedrà protagonista un altro personaggio nativo di Lobbi: Giuseppe Guazzone, conte di Passalacqua (per un approfondimento, si rimanda all’articolo pubblicato sul blog Alessandria in Pista – CorriereAL – del 16 giugno 2016).
[1] Vedi, Nel ‘700 lo scandalo del conte falsario, www.atlanteditorino.it/documenti/falsari
[2] La genealogia degli Stortiglioni ebbe inizio con Ruffino, membro dell’Anzianato della città di Alessandria nel 1292. Giovanni Stefano, padre di Carlo Maria, sposò Teresa Mandrini, che assunse la giurisdizione feudale sulla borgata di Lobbi nel 1735.
[3] Carlo Emanuele III (Torino, 27 aprile 1701 – Torino, 20 febbraio 1773) autorizzò l’emissione delle prime banconote in Italia con un decreto firmato il 26 settembre 1745. Furono stampate dalle Regie Finanze di Torino ed erano in bianco e nero e su una sola faccia. Non si stabilì subito se fosse più adatto il formato verticale o orizzontale (nei primi decenni circolarono entrambi), tra il sospetto generale della popolazione piemontese, che non vedeva di buon occhio queste cedole.
[4] Vincenzo Larini era considerato un maestro nell’arte di contraffare a penna i disegni e le sottoscrizioni. Nel dicembre 1760, venne cacciato dalla segreteria di guerra per condotta disonesta.
[5] Negli anni Quaranta del XVIII secolo il reddito medio annuo per abitante del Regno di Sardegna era di 65 lire.
[6] Attraverso un Manifesto Camerale del 7 marzo 1761, fu stabilito che tutti i biglietti in circolazione venissero immediatamente richiamati e sottoposti a verifica, che fu eseguita dal mese di agosto al mese di ottobre del 1762, poi prorogata fino al 30 aprile 1763.
[7] Mediante l’Ordinanza del 13 ottobre 1764, si stabilì che tutti i biglietti originali erano ormai stati rimborsati, e di conseguenza si resero inconvertibili gli eventuali falsi rimasti.
[8] Pietro Civalieri, Memorie storiche di Alessandria. Parte I, 1759-1821, pag.21