a cura di Angelo Marenzana
Palermitana di nascita, Rosalia Messina è la scrittrice ospite di questa nostra domenica letteraria. Ritorna a trovarci dopo averla conosciuta attraverso le pagine del suo precedente romanzo Uno spazio minimo, pubblicato da Melville Edizioni nel 2017. Oggi, con l’eleganza stilistica che la contraddistingue e con la grazia poetica con cui sa trattare il tema della solitudine e dell’abbandono, propone ai lettori di ALlibri un estratto della sua ultima fatica La stagione dell’Angelo (edito da ChiPiùNeArt). Protagoniste un’anziana signora che non ha più nulla da chiedere alla vita e una ragazza inquieta in cerca di se stessa, entrambe circondate da una città sempre in bilico tra indifferenza e solidarietà ma capaci di dimostrarsi all’altezza di uno scambio prezioso tra due donne alle prese con differenti stagioni della vita.
Questo brano è tratto dal primo capitolo. Narratrice protagonista è Elisabetta.
Buona lettura.
Io e Grazia siamo nate In Sicilia, in un piccolo paese in provincia di Siracusa. Prima, quando tutto andava per il verso giusto, in estate andavamo lì, a trovare i parenti e a goderci il mare. Facevamo il bagno in tanti posti diversi, all’Arenella, o al Plemmirio, qualche volta a Fontanebianche. Grazia si allontanava dalla riva e mamma si preoccupava, si torceva le mani e la chiamava, piantata sul bagnasciuga con gli occhi strizzati per il sole e la mano sulla fronte a ripararseli, povera mamma. Era grassa e in spiaggia portava sul costume certi calzoncini a mezza coscia che le scoppiavano addosso, se li levava solo per fare il bagno. Neri o blu, i colori scuri sfilano, diceva, mi veniva da ridere e poi, quando sono cresciuta, mi faceva pena, non c’era nero che potesse sfilarla. Però era tosta, muscolosa, non di quel grasso molle molle che traballa. Non si bagnava i capelli, ci teneva assai, si faceva fare la permanente qui, a Bologna, da un parrucchiere bravo che aveva tanti negozi e non mi ricordo più come si chiamava; poi è fallito e il negozio l’ha rilevato una che lavorava da lui, una rumena biondina, alta, con gli occhi piccoli, le labbra sottili e la faccia da volpe. Tante cose non ricordo bene, altre invece sono perfette e precise nella mia testa di vecchia mezza matta, come sono certa che dicano i pettegoli. Il mare, per esempio, il mare è come una cartolina che ho sempre davanti agli occhi, anche se da tanto non lo vedo. Il mare vero, profumato, con gli scogli, quello del paese mio, non questo mare finto della Romagna, che puzza ed è pieno di alghe e altre schifezze. Io ero più paurosa di Grazia, preferivo giocare vicino alla riva. Papà, secco e scuro, avrebbe voluto insegnarmi ad andare sott’acqua, ma a me non piaceva per niente. Ero come la mamma, preferivo la terra, bella solida e ferma, come me; anche se dalle parti mie la terra balla, ogni tanto, e pure forte. Ma anche qua può capitare che si metta a tremare e fa prendere certi spaventi… L’acqua sì, mi piace pure, ma solo per rinfrescarmi. Non mi ci voglio perdere. So nuotare e galleggiare a morto, faccia al cielo, ma non voglio spingermi fin dove è troppo profondo, dove sotto di me c’è acqua per centinaia di metri e solo a pensarci mi sento mancare l’aria.
Qui a Bologna siamo in tanti a venire da giù, e stiamo tutti tra noi. Sono cortesi ed educati, qui, ti salutano e perfino sorridono, scambiano quattro chiacchiere anche se non ti conoscono; ma un caffè a casa di un bolognese non l’ho bevuto mai. A Bologna si va nei bar, molti fanno colazione fuori casa. Escono apposta, anche quelli che non lavorano. Infatti c’è un bar ogni due portoni. Stanno lì seduti, giovani e vecchi, prima di andare a lavorare o a fare la spesa. Qualcuno sfoglia il giornale. La maggior parte di loro va sempre nello stesso posto, dove il proprietario li chiama per nome e sa già cosa prende il Nando o come vuole il caffè la Lisa. Comunque a me il loro modo di fare interessa poco, non mi serve il caffè a casa dei bolognesi, prima avevo la mia famiglia tutta intera, mio marito e mia figlia, e mi bastavano, anzi mi avanzavano, sentivo le giornate piene piene, sapevo di essere utile a qualcuno. Ora le cose sono cambiate, tanto cambiate, ma so stare da sola e anzi mi piace; e poi c’è Grazia che viene tutti i giorni. Controlla che io prenda le mie pillole, ci pensa lei alle ricette; la dottoressa Cordopatri, una calabrese che ha studiato qui e c’è rimasta, pure lei inguaiata da un matrimonio con un bolognese, gliele fa trovare già in farmacia, di fronte al suo studio. Grazia conta le pillole, poi dice che sono brava, qualche volta mi fa una carezza e se ne va. Ogni settimana m’invita ad andare a pranzo da lei.
«Allora, la prossima domenica ti aspetto» dice.
«Vediamo» le rispondo, ma lo sappiamo tutt’e due che non ci andrò. Non esco mai. Quasi mai.
Passo tante ore a guardare la televisione. La chiamo la mia scatola magica, perché mi fa sognare e mi riempie le ore. Dopo aver spazzato e lavato il pavimento, passato lo straccio umido sui mobili per togliere la polvere, rassettato cucina e bagno, di tempo me ne resta. Mi piacciono i quiz, anche se a certe cose, molte cose, non so rispondere. Mi piacciono le storie di poliziotti e carabinieri. Anche i film, quelli vecchi in bianco e nero, per esempio quelli di Totò, mi faccio tante risate. Pure qualche film più recente, insomma, quelli a colori di quando ero giovane io. Mi piaceva tanto Robert Redford. Pure Omar Sharif, Il dottor Zivago l’ho visto tante volte. E degli attori italiani il mio preferito è Vittorio Gassman, il figlio non è bello neppure la metà di suo padre. E Nino Manfredi, che bravo, che faccia buona. Delle donne mi piace assai Monica Vitti, ora dev’essere anziana pure lei, quando ci sono i suoi film alla televisione m’incanto a guardarli.
Oggi però potrebbe essere una buona giornata per andare fuori. Non corro il rischio d’incontrare gente, verso le due di pomeriggio anche le strade saranno deserte. Ecco, oggi sì, oggi magari faccio due passi.
Era un’espressione che usava Gino, fare due passi. Mi ricordo quando me lo proponeva, di solito la domenica pomeriggio, dopo che avevo sistemato in cucina, e magari mi sarebbe piaciuto stare un po’ seduta davanti alla TV, ma poi pensavo a quello che diceva mia madre sui mariti, che bisogna assecondarli e far loro compagnia quando la chiedono, altrimenti trovano qualche altra che fa la carina e dice sempre sì e se ne vanno da casa. E io non volevo che Gino se ne andasse da casa. Non è che dopo i primi anni Gino mi facesse impazzire come all’inizio, diciamo la verità. Però volevo restare sposata con lui, avere la vita normale che hanno tutti, la famiglia unita, come si dice, che io non so bene cosa significhi perché unita, la mia famiglia, da un certo momento in poi non è stata più. E com’era prima non me lo ricordo bene, tutto è confuso e ci sono cose brutte che ricordo bene, cose belle che ricordo poco e male e a volte penso che alla fine questa vita non è nemmeno la mia, che sono capitata per sbaglio nella vita di un’altra, come certe volte succede nei film, ne ho visto uno che raccontava una storia di questo genere ma il titolo mi sfugge. Quando le cose belle smettono di funzionare hai l’impressione che non abbiano funzionato mai: se smetti di voler bene a qualcuno, è come se non gliene avessi mai voluto, se non t’interessa più una cosa che ti piaceva prima, tanto tempo fa, ti sembra che non ti sia mai piaciuta.
Quando ancora tutto era più o meno normale mi vestivo, mi pettinavo, mi truccavo un po’, solo un po’, non sono mai stata una che si pasticcia gli occhi, mi bastavano cipria e rossetto, come mia madre, una collana, le calze nuove. Avevo una vita che non me lo chiedevo neppure se mi piacesse o no, siamo gente così, che sa faticare e accontentarsi.
E questa estate calda e lunga non vuole finire, adesso che non c’è più famiglia per me, non c’è più mare, né quello profumato di giù, trasparente, freddino in certi punti, con gli scogli pieni di ricci, né quello puzzolente e fangoso della Romagna, non ci sono orli da accorciare, toppe da sistemare sugli strappi, non c’è la voce di Erica mia, un po’ rauca, bassa, come quella di certe cantanti di colore. Mi manca perfino la tipa del secondo piano che urla chiamando i gemelli. E allora vado ad affacciarmi dall’altro lato della casa, quello che dà sulla strada.
Anche il palazzo di fronte si è svuotato. Ogni tanto si affaccia la ragazzina che ogni mese cambia colore ai capelli, se li tinge viola, verde acido, blu elettrico, porta gli scarponcini anche con questo caldo infame e fuma alla finestra. È magra come un’acciuga e si veste in un modo impossibile, come la mia Erica; e poi tanti orecchini, tatuaggi. Ci salutiamo da lontano, la guardo, chissà che vita fa, se anche lei si droga, se i suoi lo sanno e come reagiscono. Oggi non c’è, le finestre di casa sua sono chiuse e ci resto un po’ male. Ho studiato i suoi orari, si possono sapere tante cose guardando dentro le finestre. Oltre lei, ho visto soltanto una donna sui cinquanta, bionda finta, in carne ma graziosa, sempre pettinata e vestita come se stesse per uscire; da un po’ non si affaccia, sarà partita per le vacanze? La ragazzina fino a ieri c’era. È così diversa da sua madre, immagino che sia la madre quella, anche se non si somigliano, del resto nemmeno Erica somigliava a me, solo in poche cose, di quelle che non si vedono subito, che agli estranei sfuggono perché ci vuole tempo per conoscere certi dettagli, certe abitudini. Alla prima occhiata si coglie l’aspetto fisico, l’altezza, colore dei capelli e degli occhi, modo di vestirsi. E in queste cose Erica non aveva preso da me, era più simile a suo padre, tranne che per l’abbigliamento. Quel modo di vestire un po’ straccione che lui odiava.
Non ho voglia di restare ad aspettare, è tutta la vita che aspetto. Meglio andare a sprofondarmi in poltrona e accendere la mia scatola magica. Pigio a caso i tasti del telecomando, guardo lo schermo senza vedere, quasi senza sentire, e dopo un po’ mi assopisco.