“Oriundo! Ven ṣü da lé!!!”: un ricordo di Benito Michelon [Un tuffo nel passato]

di Tony Frisina

 

 

Oriundo! Ven ṣü da lé!!!

Questa era l’intimazione che Benito Michelon pronunciava con il suo tono di voce normale, seppure possente, per far scendere incauti avventori dal trampolino quando le presenze di bagnanti in vasca erano diventate rilevanti.

La frase era scandita senza cattiveria ma in maniera perentoria. Il volume era quello solito della sua voce, ma ai ragazzotti a cui l’ingiunzione era rivolta doveva apparire come un ordine oltre il quale, trasgredendo, avrebbe potuto esserci addirittura la violenza fisica; immediata era, quindi, la totale obbedienza, con la veloce ridiscesa mediante la malagevole scaletta di ferro.

Ma Benito le sue mani non le ha mai alzate con nessuno, tantomeno con i ragazzotti a cui invece voleva bene e da cui era rispettato ed in un certo qual senso venerato. Per tutti era un onore essere suo amico o soltanto poterlo avere tra le conoscenze.

Benito Michelon era un’icona non solo come pugile – era stato campione italiano dei Mediomassimi, conquistando il titolo il 26 dicembre del 1964 sconfiggendo Piero Del Papa – ma in seguito anche (soprattutto per noi alessandrini) come bagnino e custode della Piscina Comunale e dell’adiacente Palazzetto dello Sport di Alessandria.

Benito Michelon se n’è andato quasi tre anni fa, lunedì 26 marzo 2018, dopo un periodo – troppo lungo – di salute malferma.

Quando da bambino cominciai a frequentare la Piscina Comunale ed i corsi di nuoto – erano i primi anni ’60 – lui era già lì, al suo posto di bagnino. Di solito girava attorno alla vasca grande e spesso lo si vedeva presso la sua sdraio, postazione vicina al bordo della vasca grande, nella zona dove la profondità raggiungeva i cinque metri e dove i trampolini da un metro, quello da tre e la piattaforma di cemento da cinque metri si protendevano sull’acqua.

Dalla sua sdraio non perdeva un solo particolare di tutto ciò che capitava in vasca, senza mai fallire.

Sovente lo si vedeva chiacchierare con numerosi amici e a volte con belle signore che amavano stare proprio accanto a lui per divertirsi alle sue lampanti battute. L’occhio di Benito però era sempre vigile, sempre attento alla sicurezza in vasca ed all’occorrenza sapeva scattare come un felino tuffandosi in aiuto del pericolante. Lo sprovveduto di turno che si inoltrava in acque per lui insicure molte volte era un militare di leva fra le migliaia che a quei tempi affollavano la piscina (e la città).

Quando nel 1977 fui assunto dal Comune di Alessandria per prestare servizio alla Comunale in qualità di Assistente Bagnanti (era la prima stagione balneare di tre estati consecutive), ebbi l’onore di lavorare proprio con Lui, con il Maestro, con il mito di Alessandria; oserei dire che, con onore, fui alle sue dipendenze.

Non saprei spiegare per qual motivo tante persone – quasi sempre gli amici e i conoscenti più intimi – a quell’epoca si rivolgessero a Benito appellandolo Maestro. A lui certamente quel titolo, seppure scherzoso, piaceva; lo accettava come se realmente gli appartenesse.

Maestro, sì, senza diploma Magistrale e senza essere artista. Per tutti era semplicemente il Maestro. Forse Maestro di vita? Non credo ma… chissà.

Benito con me era stato chiarissimo. In una mattina dei primi giorni di Giugno 1977 – primo giorno di lavoro – mi ero recato proprio da lui, a bordo vasca, per dirgli che sarei stato suo collega. Non saprei dire però se in quella occasione si ricordasse di avermi già visto in passato come frequentatore.

Nel darmi le prime disposizioni mi guardava seriamente in viso… seriamente ma non troppo. Forse voleva capire dalla mia espressione se avessi capito perfettamente. Parlava con un tono ed un piglio tali per cui mi era impossibile non immagazzinare quelle nozioni come fossero state marchiate a fuoco. Il lavoro era troppo delicato e di estrema responsabilità e non si poteva né si doveva mai sbagliare. Come quando Benito combatteva sul ring. Anche e soprattutto lì, in piscina, non si poteva e non si doveva abbassare la guardia.

Tu devi sempre guardare nella vasca! Se ad un palmo dal bordo (fuori dall’acqua) si legnano o se scopano a te non deve interessare. Guardi la vasca e basta”.

Aveva aggiunto inoltre: “Se devi assentarti per qualsiasi ragione devi dirlo a me!

Testuali parole.

Sì, proprio così, perché il suo frasario conteneva parole vere, parole dell’uomo di strada, parole mai sostituite in altre circostanze con altre parole altrettanto giuste ma più finte, seppure a qualcuno – certi vocaboli – potessero suonare eccessivi.

Benito era così. Era un uomo sincero e diretto come forse lo erano stati i suoi pugni nel corso delle gare; era una persona schietta.

Io – che a quell’epoca avevo venticinque anni, seppure già da qualche tempo avessi concluso il servizio di leva militare – avevo sùbito imparato a prendergli la misura e cercavo – seppure con qualche sforzo – di adeguarmi al suo stile ruspante.

Ricordo infatti che da lì a qualche giorno, durante un turno di lavoro, ebbi bisogno di allontanarmi dalla vasca. Passato quindi davanti alla sua postazione abituale e con estrema educazione mi ero rivolto a lui, che in quel momento era in compagnia di una signora, avvertendolo che mi sarei assentato qualche minuto.

Per tutta risposta era uscito con una domanda che era anche l’esatta corrispondenza con il motivo della mia necessità: “Vai a pisciare?”. Ebbene sì, ci aveva azzeccato. Con quel suo modo rude e con un sorriso sornione appena svelato si divertiva nel sorprendere gli astanti. Fu così che, da quella volta, ogni occasione in cui avevo bisogno di assentarmi non mi rivolgevo a lui come avevo fatto nella prima occasione, ma esponendo in maniera diretta la mia necessità: “Benito, esco un attimo per pisciare!” Oramai anche quella semplice necessità era diventata motivo di una sorta di gioco verbale, a dispetto di chiunque fosse stato presente. Forse anche lui, a modo suo, era dotato di spirito Goliardico.

Come si potrebbe giudicare lo scherzo che con più frequenza amava portare a compimento se non come atto Goliardico?

Se ne stava tranquillo sulla piattaforma dei cinque metri a guardarsi in giro e quando in piscina c’era un discreto numero di persone improvvisamente incominciava a gridare, esprimendo una certa meraviglia e tutto lo stupore di cui era capace, che nell’acqua c’era una biscia. Urlava a gran voce “La bisa! La bisa!”, indicando un punto preciso nell’acqua e pronunciando la parola biscia senza il suono “sc”, come del resto a molti alessandrini – abituati ad esprimersi solo in dialetto – ancora oggi risulta di difficile pronuncia: si sente infatti, o più spesso si sentiva dire: “sei semo, sei siocco, sienziato, sioglilingua”, ecc. (sei scemo, sei sciocco, scienziato, scioglilingua).

Quando Benito riteneva che intorno alla vasca si fosse radunato un congruo numero di curiosi accorsi per vedere serpeggiare l’insolito rettile e ignari del seguito, si lasciava cadere dalla piattaforma con i suoi cento e passa chilogrammi di stazza, impattando a poca distanza dal bordo nella sua classica “bomba”. Quel “tuffo”, effettivamente, della bomba aveva tutta la parvenza per fragore e per la gran massa d’acqua che dal tonfo si alzava di parecchi metri, inondando poi tutti quanti. Poveracci coloro che, accorsi per curiosare, invece del costume da bagno avevano già indosso maglietta e pantaloni, pronti per tornare a casa. Per appagare la curiosità di vedere la biscia si ritrovavano poi tutti bagnati come pulcini e ridendo per non piangere1 se ne andavano con una certa qual rabbia di essere stati presi per i fondelli.

Non voglio svelare qui tutti gli aneddoti che potrei raccontare, ma uno ancora lo voglio descrivere.

Un giorno, dopo le numerose ore di servizio, finita anche la pulizia, eravamo rimasti a chiacchierare. Con me e con Benito c’era anche qualcun altro, forse colleghi.

Un ragazzino che avrà avuto dodici, tredici anni, ormai già vestito, pronto per andare a casa, aveva percorso tutto il perimetro della vasca grande, fermandosi poi ad osservare l’acqua accanto ai blocchi di partenza. Il punto dove la profondità misurava un metro e ottanta.

Benito, appena scorto l’intruso, era uscito con una delle sue solite frasi, la più usuale: “Va vea da lé!” (Vai via da lì!). Non saprei dire se avesse anche fatto uso dell’epiteto fra i suoi preferiti e cioè “Oriundo!”. Nulla da fare. Il ragazzino continuava a guardare verso l’acqua, e non erano state sufficienti le tre o quattro volte in cui il Maestro gli aveva intimato di andarsene.

Con le scarpe, in zona vasche, non si poteva stare, e questo ragazzo era vestito di tutto punto.

Il gigante buono, senza fretta, gli si è fatto più prossimo ed infine, giunto a distanza di contatto, ha allungato un braccio spingendo il malcapitato in acqua.

L’incauto avventore, sordo ai richiami del capo, rinsavito ma anche tutto infradiciato è tornato a riva e poi se n’è andato; dopodiché abbiamo potuto riprendere la chiacchierata interrotta.

Non sono trascorsi più di cinque minuti e si è visto arrivare a gran passo un uomo agitato e furibondo. Sbraitava e urlava all’indirizzo di colui che aveva osato buttare suo figlio nell’acqua bell’e vestito.

Voglio sapere chi è stato a buttare mio figlio tutto vestito nell’acqua!” urlava rivolto a tutti i presenti. Michelon, col suo solito modo di fare pacato e (naturalmente) per nulla intimorito dal signore furente, con una certa flemma, si era alzato ed aveva risposto: “A son stacc mé, perchè?” Dopo una frazione di secondo – ed un ben celato ripensamento – il signore furente aveva esclamato: “Ha fatto bene! Così mio figlio impara che non si deve stare vestiti a bordo vasca!” e senza pronunciare altre parole si è congedato con un immediato dietro front.

A Benito non occorreva alzare la voce o profferire minacce. Non era da lui. Forse la fama di campione italiano di pugilato lo precedeva e lo circondava sempre, e probabilmente anche per questo era trattato da tutti con un certo riguardo, con rispetto. Sono sicuro che in ogni caso non avrebbe alzato le mani contro alcuno. Lui non ne aveva bisogno.

Ciao Benito, ciao vecchio compagno di lunghi giorni assolati di lavoro e di tantissime sane risate!

Sono stato fortunatissimo di aver potuto collaborare insieme a te per il perfetto funzionamento della Piscina Comunale di Alessandria, luogo fantastico – non solo fisico – ma ormai anche e soprattutto luogo del mito.

In questa immagine è ben visibile il clima che si respirava in questo magico luogo.

La cartolina è stata spedita nel luglio del 1956 e mostra un discreto affollamento. Io ricordo questo posto ancora più gremito di gente di ogni tipo. La domenica in particolare, quando i militari delle diverse caserme erano in libera uscita e anche quando la città era invasa da migliaia di motociclisti accorsi per il Raduno Internazionale Madonnina dei Centauri, non ci si poteva muovere. La gente in acqua era stipata come le sardine nella loro scatola di latta. Ma il divertimento e l’allegria erano assicurati.

La piscina, oltre che luogo di sport e di svago era anche punto di conoscenza e di romantici incontri.

Tanti ragazzi proprio qui si innamoravano e qualcuno ancora oggi vive con la sua anima gemella conosciuta proprio fra le vasche ed il bar, accanto all’immancabile yuke box o magari presso la postazione di guardia alla vasca del Maestro.

 

1 Nel gergo locale si dice anche Reji col cü cocc – ossia Ridere col culo cotto; fingere, cioè, di essersi divertiti ma averne patito intimamente lo scorno.