di Mauro Remotti
Il Barbarossa e la beffa di Alessandria[1] è un romanzo di Dario Fo[2], curato dal figlio Jacopo[3] a un anno dalla scomparsa del celebre scrittore.
Il libro racconta i primordi dell’età comunale nelle regioni dell’Italia settentrionale; un periodo turbolento caratterizzato da lotte intestine e forti tensioni religiose, quali il rogo dei Monfortini[4], accusati d’eresia dall’arcivescovo di Milano Alberto da Intimiano.
Il 4 marzo 1152 un nuovo protagonista si affaccia sulla scena: l’imperatore tedesco Federico I Hohenstaufen, detto il Barbarossa, nemico giurato dell’autonomia dei Comuni, il quale scende più volte in Italia per riaffermare la propria autorità (prima e seconda dieta di Roncaglia). Fo pone l’accento sulla spietatezza del sovrano nei confronti dei sudditi riottosi, descrivendo accuratamente l’assedio e la distruzione di Milano del 1162, menzionata anche da Dante Alighieri nella Divina Commedia: “sotto lo‘ mperio del buon Barbarossa, di cui dolente ancor Milan ragiona”[5]. Stanchi di subire soprusi, i rappresentanti dei Comuni decidono di giurare a Pontida un’alleanza contro il Barbarossa che culminerà con la vittoria a Legnano nel 1176.
Qualche anno prima della famosa battaglia ha luogo la fondazione di Alessandria. Le cronache ufficiali, che si intrecciano alle leggende locali, narrano di un lungo e logorante assedio (27 ottobre 1174 – 12 aprile 1175) da parte dell’esercito imperiale alla neonata città e dello stratagemma escogitato dal villico Gagliaudo per liberarla. Questi, proprio nel momento in cui la popolazione, ormai stremata, pensa alla resa, rimpinza una mucca con l’ultimo sacco di avena rimasto e la fa uscire dalle mura. I soldati teutonici, una volta catturata e macellata la povera bestia, si convincono che gli assediati possano resistere ancora per molto tempo e decidono così di abbandonare il campo.
Dario Fo confuta tale versione in quanto l’armata dell’imperatore era troppo numerosa e potente, nonché dotata di formidabili macchine da guerra, per poter essere respinta dagli alessandrini asserragliati in una città costruita in fretta e con materiali di fortuna. D’altronde, le truppe germaniche avevano appena conquistato Susa in soli tre giorni e la città di Asti in poco più di otto!
L’autore propone allora una narrazione alternativa, esposta, a suo dire, in una “copia di un documento custodito in un monastero della zona che citava la collaborazione dei monaci dell’ordine degli Umiliati alla costruzione di dighe sulla Bormida e sul Tanaro”. In questo testo, purtroppo andato perduto, si parla di una “fantastica Alessandria galleggiante” (raffigurata in un disegno del tempo) situata in una zona paludosa alla confluenza del Tanaro e della Bormida, ancorata a torrioni, le cui mura erano costruite con palizzate montate su barconi o zattere.
In fondo, la stessa denominazione “Alessandria della paglia”[6], con la quale la città è stata sovente appellata, deriva da una fallace interpretazione linguistica. Nei documenti imperiali Alessandria è infatti definita con spregio “Alexandria de palea”, ossia “Alessandria della palude”, con riferimento agli acquitrini ricchi di canneti molto diffusi nella zona; il termine palea verrà erroneamente italianizzato in paglia.
Si spiegherebbe così la capacità di Alessandria nel contrastare efficacemente, e per diversi mesi, gli attacchi delle truppe germaniche, analogamente alla repubblica contadina di Dithmarschen (nella penisola dello Jutland)[7], la quale grazie a un ingegnoso sistema di dighe, canali, bacini e chiuse riusciva a far affogare gli aggressori con piene improvvise. Il Barbarossa avrebbe dunque definitivamente levato l’assedio dopo aver assistito all’annientamento del suo esercito per via dell’apertura delle chiuse di dighe “a metà del monte nei due conventi a ridosso dei fiumi”[8].
Inoltre, pare che le cronache tedesche dell’assedio di Alessandria s’interrompano proprio al momento dell’attacco, riprendendo al momento della ritirata di Federico I ad Aosta. Questo particolare farebbe quindi pensare a una volontà regia di non rivelare la clamorosa “beffa di Alessandria”.
Il curatore del libro si premura comunque di precisare che: “le indagini sono ancora in corso, con l’intenzione di non smettere di studiare le fonti e le documentazioni a disposizione”.
Nella postfazione, Jacopo Fo mette altresì in evidenza che il libro è un “racconto lungo una vita”, iniziato quando il padre, prima di calcare la sera il palcoscenico, narrava al figlio di sette anni “la storia di un imperatore malvagio e di come i Milanesi avevano distrutto il suo esercito. (…) Sono storie che se le ascolti da piccolo poi passi tutta la vita a cercare il modo di fregare ancora una volta la cavalleria imperiale”.
[1] Dario Fo, Il Barbarossa e la beffa di Alessandria, Ugo Guanda Editore, Milano, 2017.
[2] Dario Luigi Angelo Fo (Sangiano, 24 marzo 1926 – Milano, 13 ottobre 2016), drammaturgo, premio Nobel per la letteratura nel 1997. La madre, Pina Rota, era originaria di Sartirana Lomellina.
[3] Jacopo Fo (Roma, 31 marzo 1955) è uno scrittore e attore.
[4] Nel 1028 le truppe milanesi, guidate dall’Arcivescovo Ariberto d’Intimiano, assediano il castello Monforte. Dopo la conquista, trascinano i superstiti sino a Milano costringendoli ad abiurare le loro posizioni ereticali vicine al catarismo. La metà di costoro (circa 200) preferisce morire sul rogo piuttosto che rinnegare il proprio credo. La memoria collettiva ricorderà per molto tempo tale eccidio. Ancora oggi a Milano esiste una strada a loro dedicata.
[5] Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, canto XVIII,vv.119-120
[6] Vedi: Mauro Remotti, I nomi di Alessandria, CorriereAL, 13 gennaio 2017.
[7] Creata in epoca medievale, faceva parte del Sacro Romano Impero e della Lega Anseatica.
[8] Secondo Jacopo Fo, una diga era situata lungo il Tanaro a Castello d’Annone, mentre l’altra si trovava lungo il fiume Bormida presso Monastero Borimida. Oltre che per la lavorazione della lana, pare che l’Ordine degli Umiliati fosse noto per le abilità ingegneristiche nella costruzione di dighe e canali.