a cura di Angelo Marenzana
Pescarese e attivo da anni come artista figurativo (finalista nel 2015 a “Ritratti Contemporanei”), Andrea La Rovere scrive per numerose testate nazionali, occupandosi di sport, storia, cinema e soprattutto musica. In occasione del nostro appuntamento domenicale di ALlibri, l’autore ci presenta la sua raccolta di racconti Insonnia, recentissimo esordio letterario per la casa editrice Tabula Fati. Si tratta di diciotto racconti brevi, di quelli che si leggono tutto d’un fiato e che lasciano pure un po’ senza fiato per via della presenza di quella dinamica di oscure emozioni che spesso governano l’animo umano lasciando la persona stessa in balia di una sorta di mistero esistenziale. Sono racconti capaci di lasciare dietro di sé una lunga scia di riflessioni, sempre intessuti con uno stile secco e asciutto e non privo della giusta dose di ironia tanto da poterli collocare tra la lezione di Edgar Allan Poe (scrittore che La Rovere ama molto) e le atmosfere carveriane, in una dimensione notturna dove tutto può accadere. È un modo cinico e cattivo, sospeso tra squallida realtà di provincia e improvvisi lampi di surreale poesia.
Tanti i personaggi. Un uomo gira per la città deserta, di notte, cercando di sconfiggere l’insonnia; un misterioso oggetto metallico sospeso sul campo di grano di un anziano agricoltore; un inquietante inseguimento nella notturna Parigi di fine ‘800; un imprenditore ossessionato dalla sua nuova pistola.
Tra tutti, offriamo in lettura il racconto Il dono.
Le mani, sempre più sudate, stringevano tra le mani il biglietto fin quasi a stritolarlo, gli occhi, per l’ennesima volta, corsero dalla schedina allo schermo appeso in alto nel Blubar. Niente da fare, dei dieci numeri uno solo corrispondeva.
Con un gesto di stizza Fabio serrò il pugno e accartocciò il cartoncino, prese la mira e lo lanciò verso l’alto tubo di plastica, una sorta di enorme provetta, che raccoglieva i gratta e vinci, le schedine del dieci e lotto e le speranze di chi passava le giornate in quel buco dividendosi tra i videopoker e i giochi d’azzardo legalizzati. Il tagliando cadde a terra.
Fabio tirò fuori con un gesto automatico lo smartphone e lesse l’orario: le ventitré e diciassette. Ancora poco più di mezz’ora e il locale avrebbe chiuso. E la situazione, inutile dirlo, non era cambiata, anzi. A Fabio rimanevano venti euro in tasca e il sabato mattina si avvicinava; aveva sempre bisogno di ottocento euro e aveva praticamente esaurito fondi e idee per procurarseli. Non restava che prepararsi all’ennesimo fallimento.
L’uomo si prese il volto tra le mani, la fronte era madida di sudore, gli occhi arrossati dalla stanchezza e la gola che gli bruciava per le troppe Camel fumate; finì di bere la birra Moretti che aveva quasi dimenticato sul tavolino e giurò tra sé che quella sarebbe stata l’ultima. Per quella sera, almeno.
Non poteva aver fallito, non di nuovo. Non agli occhi di Federica. Si portò la bottiglia fredda alla fronte e cercò di ragionare, in fondo venti euro erano pochi ma una buona base. Se solo avesse potuto moltiplicarli come quel mago, alla televisione.
Com’è che si chiamava? Ah, già, Dynamo. Cazzo, l’aveva visto solo il giorno prima su Sky, levitava davanti al Cristo di Rio de Janeiro; se solo fosse stato come Dynamo, quanto sarebbe stato semplice?
Venti euro.
Fabio gettò la Moretti nel cestino delle cartacce e si diresse al bancone; Claudia lo conosceva bene, un vero seccatore. Non era certo l’unico, in quel bar casinò di quel quartiere popolare, e manco il peggiore, ma lei era stanca. Sui suoi occhiali da vista Dolce & Gabbana si riflettevano le scene che passavano sul trentadue pollici appeso in alto, all’angolo.
L’ennesima replica di un reality, un ragazzo dalla barba curatissima e vestito come quelli delle pagine di moda di GQ doveva scegliere quale ragazza portare a cena tra dieci bellezze di tutte le etnie e colori. Fabio si smarrì un attimo a fissare quelle immagini colorate, prima di cambiare messa a fuoco e rintracciare gli occhi scuri di Claudia, persi in due occhiaie grandi come buchi neri.
La ragazza, che stava fissando lo schermo come ipnotizzata, abbassò lo sguardo e continuò a masticare sguaiatamente il suo chewing gum come se di fronte avesse un ologramma.
“Camel da venti e un miliardario,” biascicò Fabio.
Ecco fatto, ora gli rimanevano giusto cinque euro per la benzina e poi sarebbe stato a zero.
Tornò allo sgabello e iniziò a grattare nervosamente con la chiave della Panda.
Un numero, un altro, un altro ancora. Niente da fare, sempre la solita storia, il numero vincente era otto e lui aveva il sette e il nove; c’era il cinquantadue e lui aveva cinquantuno e cinquantatré. Sembrava lo facessero per prenderlo per il culo, quei bastardi.
Era finita. Gli veniva da piangere. Uscì fuori senza salutare e si ritrovò sul marciapiede; l’aria gelida lo colse alla sprovvista, si tirò su il bavero della giacca in similpelle e si accese l’ennesima Camel. Una pioggerellina sottile aveva preso a cadere, ma i tuoni in lontananza facevano capire che presto la situazione sarebbe peggiorata.
Aveva fallito di nuovo. Federica compiva diciassette anni e il suo rapporto con lei era stato una sequela interminabile di fallimenti. Come con la mamma, del resto.
Iniziò a camminare per i viali scarsamente illuminati del quartiere. Il marciapiede era un saliscendi pieno di cicatrici, a causa delle radici degli alberi, i muri da caserma delle palazzine popolari intarsiati dai graffiti sgrammaticati di qualche adolescente innamorato, i cassonetti dell’immondizia traboccanti di sudiciume di ogni genere.
Tutto sommato era una buona notte per farla finita. Quel pensiero iniziò a insinuarsi nella mente di Fabio, sempre più attraente e difficile da scacciare via.
Nel frattempo, tre sigarette e un paio di chilometri dopo, Fabio era arrivato al bar Ritz, ormai lontano dal suo quartiere e dalla sua Panda, se l’era completamente dimenticata; Rizzitelli, il titolare del locale, un romano trapiantato a Pescara ormai da quarant’anni stava abbassando la saracinesca come ogni sera a quell’ora.
Lo conosceva bene, Fabio, anni prima era stato il barista in quel buco. Rizzitelli era un vero tipaccio, da giovane era stato un buon peso medio massimo, e aveva sempre avuto certi agganci negli ambienti della mala, ma ora, a sessantacinque anni e con trenta chili in più faceva molta meno paura. E, da quando era passato anche lui dalla parte dello stato, gestendo una serie di videopoker, gli incassi della serata si erano fatti piuttosto importanti.
Il passaggio dall’idea all’azione fu quanto mai breve; Fabio si tirò sulla testa rasata il cappuccio della felpa e srotolò il collo della dolcevita fino a coprirsi il naso. A terra c’erano una quantità di bottiglie vuote: birra, vino, superalcolici di tutti i tipi; l’uomo scelse la più grossa e con un colpo secco la spaccò sullo spigolo del marciapiede.
Il fragore del vetro infranto fu clamoroso, Rizzitelli si voltò e una finestra si illuminò ai piani alti della palazzina che ospitava il locale; Fabio si avviò a passo deciso verso l’uomo.
L’effetto sorpresa era ormai perduto, ma Fabio era comunque un uomo ancora giovane e nel pieno del suo vigore, sebbene piuttosto alticcio, e Rizzitelli era un anziano appesantito e assonnato.
L’ex pugile capì subito la situazione; nella sua vita si era trovato più volte nell’incombenza di dover respingere un aggressore e, più che l’età e l’agilità, a fare la differenza fu l’esperienza. L’azione durò pochi secondi, Rizzitelli schivò la bottiglia, prese Fabio per un gomito e lo spinse contro il muro.
L’uomo sbatté violentemente prima col naso, poi con la fronte sulla parete, si voltò di scatto col sapore del sangue in bocca pronto a reagire, ma le gambe non ressero e la testa prese a girargli, tanto da cadere in ginocchio ai piedi dell’avversario.
A Rizzitelli non parve vero di ritrovarsi quello sprovveduto proprio a portata di gancio, e non si fece pregare; il colpo fu tremendo e Fabio si ritrovò ad annaspare col viso dentro la pozzanghera che andava formandosi sul selciato.
La pioggia stava aumentando. Rizzitelli era piegato in due dal dolore alla mano, erano anni che non aveva occasione di ferirsi le nocche in una rissa; Fabio a tentoni si aggrappò alle ruote di una Golf parcheggiata lì vicino e, con un tremendo sforzo, si tirò su in piedi. Le finestre si illuminarono una dopo l’altra; sembravano le luminarie dell’albero di Natale del centro commerciale. Le urla iniziarono ad accavallarsi e i cani a latrare.
Dapprima zoppicando, Fabio riuscì ad allontanarsi tirandosi dietro le bestemmie di Rizzitelli che avrebbe voluto finire il lavoro appena iniziato.
L’uomo correva, prendendo via via velocità. Corse fino a quando il petto non iniziò a bruciare, ovvero dopo poche decine di secondi, rallentò e si portò le mani al torace, senza fiato. Si trovava davanti alla salumeria del quartiere e si vide riflesso nella vetrina: il naso e la bocca erano insanguinati e sulla fronte gli era già spuntato un bernoccolo come quelli dei cartoni animati.
Cercò di ricomporsi per quanto possibile, bagnò un fazzoletto nella pozzanghera e ci si tamponò le ferite. Riprese a camminare.
Il riflesso azzurro che lampeggiava nell’acqua sporca della pozzanghera non lasciava dubbi, una pattuglia, forse della Polizia Locale, forse dei Carabinieri, si avvicinava; Fabio si ficcò nel primo vicolo e si appiattì contro la parete. La macchina passò senza accorgersi del suo comportamento sospetto, ma la paura ebbe la meglio su Fabio.
Fu come se all’improvviso l’uomo fosse ripiombato sul pianeta terra: “Mi sono ridotto come l’ultimo dei delinquenti, a tremare vedendo un lampeggiante riflesso in una pozzanghera!” pensò Fabio tremando. L’impulso di piangere era sempre più forte e, dapprima cercando di resistere con la mascella che gli tremava, poi vinto, l’uomo vi si abbandonò. Era un pianto dirotto, il suo. Il pianto di un uomo finito.
Passò così non si sa quanto tempo; doveva essere passato dal pianto al sonno senza accorgersene nemmeno, appiattito al freddo e sotto la pioggia, contro quella parete lercia in quella notte da incubo.
La pioggia aveva smesso di cadere e in lontananza albeggiava. Il giallo stava prendendo il posto del blu, uno spettacolo davvero fantastico, per chi avesse avuto gli occhi per guardarlo. Non per Fabio, la crisi era passata e la situazione non era affatto cambiata. Di lì a qualche ora Manuela, la sua ex moglie, si sarebbe presentata alla porta del suo appartamento con Federica.
Fabio vedeva la figlia nei week end, uno sì e l’altro no; vedeva per modo di dire, Federica stava per compiere diciassette anni e c’era voluta l’ordinanza del giudice per convincerla a passare quei quattro giorni al mese col padre. Giorni che, per la cronaca, passava comunque andando in giro coi suoi amici sfaccendati.
Decisamente ha preso da me nello scegliersi le compagnie si sorprendeva ogni tanto a pensare il padre. Fatto sta che si vedevano solo al momento dell’arrivo fino al pranzo del sabato, che di solito si svolgeva al McDonald’s del centro commerciale, poi Federica spariva fino a tarda notte e la domenica mattina rimaneva a dormire fino al primo pomeriggio, per poi trascinarsi in pigiama fino alle sei di sera, quando Manuela tornava a prenderla. Forse era meglio così, in fondo lei e Fabio non avevano poi molto da dirsi, visto che l’uomo passava il sabato e la domenica ossessivamente in attesa dei risultati delle partite, sperando di aver azzeccato almeno un’accoppiata o qualche over alla Snai.
In ogni caso, da qualsiasi parte si volesse girare la faccenda, le ore rimaste erano poche e degli ottocento euro non si vedeva l’ombra. Fabio si tirò su tremando per il freddo, aveva dolori in ogni parte del corpo, come quando da giovane aveva gli allenamenti di calcio.
Riprese a camminare senza meta, erano ormai le sette e mezzo del mattino quando passò davanti alle poste. Era il primo del mese, e oltre ad essere il compleanno di Federica, il diciassettesimo, era anche il giorno in cui venivano pagate le pensioni e la fila fuori dagli uffici ancora chiusi era già lunga.
Fabio riconobbe la signora Cilli; era stata sua vicina di casa ai tempi in cui aveva abitato, per qualche mese, in quel quartiere; era famosa per il suo rapporto piuttosto peculiare con le faccende economiche, infatti, pur percependo la pensione di reversibilità del defunto marito, un ex Maresciallo dei Carabinieri, abbastanza cospicua, viveva nell’indigenza a causa della sua proverbiale avarizia.
Il primo del mese, ogni primo del mese, era la prima in fila per ritirare il suo guiderdone. Le farei vedere io come si vive, con tutti quei soldi! aveva pensato più volte Fabio tra sé.
Il seme dell’idea era gettato, e fece presto ad attecchire.
Passò un’ora e la signora Cilli uscì dall’ufficio postale guardandosi intorno e tenendosi ben stretta la borsetta; sembrò quasi annusare l’aria, prima e est e poi a ovest, e poi si diresse col suo passo deciso verso casa. Fabio la seguiva a distanza di sicurezza; conosceva bene la zona, per tornare a casa avrebbe dovuto attraversare un breve sottopassaggio pedonale, che a quell’ora sarebbe probabilmente stato deserto.
Per una volta le cose andarono come aveva previsto e, appena la signora Cilli imboccò lo stretto passaggio, Fabio le fu addosso come una furia; con entrambe le mani la spinse sulla schiena mandandola a cozzare violentemente contro il muro. Forse troppo violentemente, visto che la signora, dopo aver menato una tremenda botta con la fronte, ricadde all’indietro picchiando la nuca contro lo spigolo del marciapiede con un suono sordo.
La donna era riversa al suolo, e una macchia di sangue scuro e denso andava allargandosi sotto la sua testa; Fabio ebbe un attimo di sgomento. Cosa aveva fatto? Ma fu proprio un attimo, e in capo a pochi secondi l’uomo si riebbe e si chinò sulla donna; senza ben sapere cosa stesse facendo, iniziò a frugare nella borsetta.
Nel portafogli c’era solo un pezzo da venti euro, ma nella tasca interna Fabio trovò quello che cercava; la pensione appena riscossa era lì, un voluminoso rotolo di banconote tenuto fermo da un elastico. L’aggressore non perse tempo a contare il malloppo, sapeva per certo che la signora Cilli incassava ogni mese almeno millecinquecento euro.
Si tirò su, come poche ore prima, il collo della dolcevita e indossò il pesante cappuccio ancora zuppo d’acqua, si rialzò con un balzo e uscì di corsa dal breve tunnel. Nessuno l’aveva notato.
Poche ore e Manuela sarebbe arrivata, ma Fabio aveva tutto il tempo che gli occorreva; puntò dritto verso il centro commerciale, dove, ora che aveva i soldi, poteva fare ciò che andava fatto.
L’ex moglie tardò di una mezz’ora, anche poco per le sue abitudini, così Fabio ebbe anche il tempo per ricomporsi un po’; si fece la barba e una doccia veloce, si cambiò d’abito indossando una tuta pulita. Per le ferite al naso e alle labbra e per le contusioni poté fare poco. Ma Manuela ci era abituata.
Decise di tenere la sorpresa per la fine del pranzo, tutto doveva essere speciale.
Come sempre portò Federica al McDonald’s; avrebbe preferito un posto più raffinato, ma si rese conto che non ne conosceva nessuno, perciò si risolse ad andare sul sicuro. Si era messo d’accordo con la ragazza del fast food, e alla fine dei menù che avevano ordinato, la fetta di torta arrivò con una candelina colorata sopra.
Federica fece una faccia disgustata, ma Fabio non ci fece caso: aveva il suo asso nella manica. Finita la torta, l’uomo aprì il borsello dell’Adidas che portava sempre con sé e ne estrasse un pacchetto con un fiocco rosso e la carta del centro commerciale: “Buon compleanno, tesoro di papà!” esclamò.
La ragazza prese il pacchetto fissando il padre con sospettò, e disfece la confezione con bramosia. Il viso si illuminò, nella scatola c’era il nuovissimo IPhone 10! Era uscito sul mercato da appena due settimane, ci volevano ben ottocento euro per averne uno.
La ragazza slanciò le braccia verso Fabio e l’abbracciò con trasporto: “Grazie papy! È fighissimo!”
Fabio sembrò sciogliersi in quell’abbraccio, che durò pochi secondi: “Sei felice Fede? E non è finita, oggi pomeriggio stiamo insieme, ti porto all’outlet!”
Federica lo guardo leggermente imbarazzata: “Uh, mi dispiace, ho promesso a Kevin che ci vedevamo… Vabbè, ciao!” e sparì fuori dal locale, schivando d’un soffio due poliziotti che si dirigevano verso il tavolino che aveva appena lasciato.