Il grande Lucio [Il Superstite 482]

ATO6: "Crisi idrica, i cittadini siano più parsimoniosi con l'acqua" CorriereAl 1di Danilo Arona

 

Quando arrivò Lucio Fulci in Alessandria, era di sabato. Per la precisione, il 2 giugno 1984, e Fulci arrivava in terra mandrogna su invito dell’Azienda Teatrale Alessandrina che, con coraggio e lungimiranza, stava per varare all’interno del nostrano cinefestival Fantastikon 5 una settimana di proiezioni dedicate monograficamente alle pellicole più rappresentative del regista romano.
I soliti due di allora, al secolo Gian Maria Panizza e il sottoscritto, si recarono di buon mattino all’aeroporto di Linate per prelevare questo strano e simpatico uomo dal viso arcigno e al contempo bonario che durante il tragitto si dichiarò a più riprese stupito di tutta quell’attenzione da parte di un’azienda pubblica. Nemmeno al Mystfest di Cattolica, sosteneva il romanaccio, lo avevano tanto incensato. Poi, quando lesse il pieghevole della manifestazione, s’incazzò perché qualcuno, nero su bianco, lo aveva definito “artigiano”. Non ebbi il coraggio lì per lì di confessargli che l’autore della scheda su Lucio Fulci, pioniere dell’italico horror, ero stato io. E lui, ironicamente incarognito, proruppe con un: «Semo tutti artigiani, pure l’Hitchcock!».

Al pomeriggio, durante un affollato convegno alla Sala Ferrero del Teatro Comunale al quale erano presenti Karel Thole, Giuseppe Lippi e il disegnatore Silver, Fulci ribadì il concetto, facendo andare su tutte le furie il solitamente compassato Nuccio Lodato che lo rimbrottò al suon di: «Scherza coi fanti ma…».

Bei tempi: si preannunciava un giugno fantastico, piacevolmente intriso di musica e brividi a fior di pelle, e Fulci si trattenne un paio di giorni in città, sparando a zero su chiunque, in primis su Dario Argento, definito senza tanti peli sulla lingua “isterica superstar piena di soldi”. Non lo rividi più per molti anni. In compenso i suoi film, sempre più poveri e sempre più bislacchi, nonché privi di un decente canale distributivo (i suoi ultimi titoli uscirono solo in home video), mi tenevano informato che il il grande Lucio era vivo e più artigiano che mai. E intanto due coraggiose case editrici di Bologna, Granata Press e Pendragon, pubblicavano i suoi racconti e persino una monografia alla carriera.

Lo ritrovai al Mystfest di Cattolica nell’estate del ’94, dieci anni dopo il Fantastikon 5, dove lo avevano chiamato all’ultimo momento proprio per sostituire Dario Argento in uno dei tanti convegni collaterali. Non stava benissimo, appariva in condizioni pessime, immobilizzato su una sedia a rotelle e portato in giro da una bionda strafiga e arrapante che rendeva, se vogliamo lasciar andare un po’ di cinismo, più beffardo il contrasto. In ogni caso la grinta e la rabbia si dimostravano intatte e ovviamente ci sorbimmo, con assoluto piacere, l’ennesima elegia dell’artigiano con gli immancabili strali rivolti a quella latitante produzione che gli impediva di lavorare. Vecchio Fulci: all’estero (Francia, America, Giappone) considerato mito e maestro. In Italia, casa sua, nell’estate del ’94 senza lavoro e presente al Mystfest, il festival allora più importante del settore, soltanto per sostituire la superstar assente. Ma così va il mondo.

Però non era finita. La notizia, anticipata da “Il Piccolo” del 10 gennaio ’96, che Fulci, incredibilmente prodotto proprio dalla superstar “piena di soldi” Dario Argento, sarebbe tornato ad Alessandria per girare gli interni di M.D.C. – Maschera di cera (poi terminato e firmato da Sergio Stivaletti), appariva come la quadratura di un cerchio che in qualche modo, forse attraverso canali occulti se non medianici, investiva proprio la nostra città di un’indomabile voglia di rinascita e di “emersione” da una poltiglia fangosa di disgrazie e di avversità. Era come se, per vie misteriosissime, dopo il fugace incontro del 1984, Lucio Fulci e la nostra città, regina delle nebbie e di una piccola scuola noir che meriterebbe maggior attenzione, avessero inconsapevolmente condiviso un viaggio quasi senza ritorno verso il fondo, dentro la malattia e dentro la genialità perduta. Alluvionato metaforicamente lui e alluvionati noi fuori dall’allegoria, entrambi avevamo iniziato una nuova scalata verso una meta non importa quale, ma tale da far riapparire la testa fuori dal fango.

Invece Fulci è morto, proprio mentre si stava dedicando con entusiasmo alla preparazione del suo testamento artistico. E, per colmo di sfiga che non lo ha mai abbandonato, morto nello stesso giorno in cui moriva un grande del cinema, Kieslowski, ucciso da un infarto a Varsavia. Persino da morto, Lucio Fulci ha dovuto così recitare la parte del subalterno. Così va il mondo, dicevamo.

Sarà, ma in questa morte pur preannnunciata, io ci colgo un eco sinistro. Sinistro per noi, intendo, per Alessandria. Sì, è probabile che, a furia di frequentare sensitivi e gente col terzo occhio, stia iniziando a regalare troppo spazio alle sensazioni e sempre meno al lume del ragionamento. Però quel pizzico di voglia e di rinascita locale che passava anche attraverso il ritorno nella città dei misteri e del grigiume di quell’uomo simpatico e irascibile che si trascinava sulla sedia a rotelle, adesso non lo ritroviamo più.

In quel week-end di giugno del 1984 Panizza e io costringemmo Lucio a visitare Alessandria nottetempo. Lo conducemmo nel centro storico, poi in riva al fiume. Apprezzò alla sua maniera la bizzarria asimmetria della città (definita dal Panizza “non euclidea”), gli angoli compromessi col passato come‘El Canton di Rus(l’angolo dei rossi) e i vicoli del Quartiere Orti. Davanti al Tanaro, allora poco limaccioso e con i primi, invisibili, tentativi di pesci-siluro, sembrò provare un brivido. Ma forse si trattava soltanto dell’umidità e della tarda ora notturna. Panizza e io partimmo in quarta con un peana verbale sui pregi estetici del Piemonte in quanto “Transilvania” dell’Italia. Il nostro sogno inconfessato e mai realizzato forse consisteva nel fatto che Fulci magari venisse qui a girare Zombi 4.

Alle tre di notte sbottò con: «Ci avete i fantasmi qui, lo sapete?»
Certo che lo sapevamo, ma stavamo anche aspettando, allora, qualcuno che li filmasse. Non successe. Ma le leggende, col tempo, s’ingigantiscono.

Come Lucio, una leggenda del cinema italiano.