Il grande balzo in alto del fantasma Ni [Lettera 32]

di Beppe Giuliano

 

Cifra tonda. Capitolo 6

 

“La passione per Mao Zedong (che allora però si chiamava Mao Tse-tung), scoppiò in Italia a metà degli anni Sessanta, quando l’inizio della Rivoluzione Culturale, così lontana e nebulosa, appariva come la realizzazione di un sogno, e qui c’erano solo le prime avvisaglie del ’68.” Così scrive su Repubblica Natalia Aspesi, che aggiunge: “il faccione del vecchio Mao col suo berrettone con la stella rossa era dappertutto, nelle università si appendevano Tadzebeo scritti con ideogrammi cinesi copiati dai libri in casa della sinologa Edoarda Masi, di cui nessuno sapeva il significato. Dice Grazia Cherchi: I due motti che piacevano di più erano ‘La rivoluzione al potere’ e ‘Assalite il quartier generale’. Il libretto rosso, dapprima importato direttamente dalla Cina già tradotto in italiano, poi stampato anche in Italia, era entrato come oggetto indispensabile nelle case borghesi, assieme ai manifesti, con mietitrici e soldati cinesi molto festosi. Nei primi anni Settanta anche alla Scala si andava con la giacca blu alla Mao, fatta su misura dal sarto di famiglia.”

C’erano leader maoisti da noi, per esempio Aldo Brandirali che passerà poi dal libretto rosso al potere azzurro quando lascerà Mao e Lin Piao per Formigoni e don Giussani, non prima di avere celebrato “matrimoni rossi”, per esempio quello tra Renato Mannheimer e Barbara Pollastrini. “C’era in loro – chiosa la sempre acuta Natalia – una componente religiosa, un maoismo osservante che sfiorava il fanatismo.”

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Ni Zhiqin (che allora però si chiamava Ni Chih-Chin) aveva, senza dubbio, una visione meno religiosa della Rivoluzione Culturale. Che aveva cambiato la vita radicalmente, è proprio il caso di dirlo, ai cinesi. A Ni andò tutto sommato anche bene, visto che era un maoista osservante. La scampò dall’accusa di revisionismo borghese o di attività controrivoluzionaria che bollò tantissimi, solo dovette smettere di fare la sua attività. Lo mandarono a servire il popolo insegnando educazione fisica, lui che prima della follia aveva saltato in alto fino ai 2,27 a un solo centimetro dal record mondiale, detenuto dal sovietico Valerij Brumel.

Ni Chih-Chin non potè gareggiare dalla fine del 1966 al 1970. Le manifestazioni sportive erano bandite, avrebbero indotto infatti gli individui a emergere al di sopra degli altri, avendo come unica ambizione la conquista di un premio o di un trofeo. Inaccettabile per le Guardie Rosse, i giovani studenti che in quel tempo decidevano la sorte delle persone: insomma la Rivoluzione Culturale lo fermò tra i ventiquattro e i ventotto anni, cioè nel periodo migliore della carriera sportiva, qualcosa di simile a quanto successo a molti atleti a causa delle guerre mondiali.

Già l’essere cinese lo aveva privato della possibilità di partecipare alle Olimpiadi, allora boicottate contro la partecipazione di quella che chiamavamo Formosa (la Cina nazionalista di Chiang Kai-shek) mentre il suo paese nemmeno aderiva alla federazione d’atletica.

Così, quando l’8 novembre 1970, una domenica, nella città di Changsha superò al secondo tentativo l’asticella posta a 2 metri e 29, una misura che nessuno al mondo aveva mai saltato prima, il record del mondo non entrò in nessun albo d’oro ufficiale.

Come se non ci fosse mai stato, per le statistiche.

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I due decenni tra il 1960 e il 1980 furono il periodo d’oro del salto in alto.

Alle Olimpiadi di Mosca dell’80 tra l’altro vinse l’oro la nostra Sara Simeoni, che deteneva anche il primato del mondo con 2 metri e 01.

Vent’anni prima il record era di quindici centimetri inferiore mentre oggi, quarant’anni dopo quel primato di Sara è di appena otto centimetri superiore.

A Roma nel ‘60 aveva vinto Iolanda Balas, la rumena che saltava ancora con l’antiquato stile a “forbice”, prima che un ragazzo americano che non stava simpatico a nessuno rivoluzionasse le tecniche di salto.

Iolanda Balas, una ragazza altissima per il tempo con il suo metro e ottantacinque di statura, resta assolutamente la più grande saltatrice in alto della storia. Non aveva ancora vent’anni quando stabilí per la prima volta il primato del mondo, attorno alla metà degli anni cinquanta. Un decennio più tardi aveva migliorato il proprio primato di addirittura sedici centimetri. Prima di lei per progredire altrettanto nei record del mondo c’erano voluti una trentina di anni e dieci diverse atlete.

Balas aveva vinto in un decennio 140 gare consecutive. A Roma la seconda classificata aveva saltato quattordici centimetri meno di lei, qualcosa di inaudito. A Tokyo “solo” dieci.

Tra gli uomini i due rivali, all’inizio degli anni sessanta, erano il sovietico Brumel e l’americano Thomas. La carriera di entrambi verrà rovinata da incidenti molto sfortunati: l’americano quando si schiacció un piede in un ascensore, il sovietico quando si maciulló una gamba in un incidente motociclistico, dopo avere portato il record a 2,28. Già, proprio il primato che sarà battuto dal nostro Ni.

Tutti loro usavano lo stile ventrale di scavalcamento dell’asticella. Nessuno aveva mai pensato infatti di passarla con la schiena. Nessuno fino all’arrivo di Dick Fosbury, lo Steve Jobs del salto in alto, che sconvolse i canoni alle olimpiadi di Città del Messico del 1968.

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Ni Chih-Chin aveva il fisico di un giocatore di pallacanestro, alto un metro e novanta, pesante 85 chili, correva i 100 metri attorno ai 10 secondi e mezzo e saltava in lungo più di sette metri e mezzo. Insomma, il figlio di contadini di Quanzhou era un naturale atleta.

Ah, coincidenza straordinaria: era nato lo stesso giorno, mese e anno di Valerij Brumel, il grande campione sovietico cui strappò il primato.

Domenica 8 novembre 1970 la pedana dello stadio di Changsha in cui Ni superò al secondo tentativo l’asticella posta a 2 metri e 29 era ancora in terra battuta, non il tartan su cui gli atleti un paio d’anni prima avevano saltato a Città del Messico, e si atterrava ancora sulla sabbia, non sui morbidi materassi che furono cruciali per permettere il nuovo stile di scavalcamento dell’asticella con la schiena.

Le reazioni a quel salto di 2,29 ci furono. Dick Fosbury, già, proprio l’inventore della nuova tecnica, lo commentò con entusiasmo. I sovietici, che perdevano il primato, e la federazione internazionale sollevarono dubbi sull’autenticità delle gare disputate al riparo della Grande Muraglia. La misura come detto, non venne mai registrata in nessun albo d’oro.

Ni, sempre strettamente osservante, dichiarò “se i miei salti volassero in alto quanto i pensieri del Presidente Mao, ci vorrebbe la scala dei pompieri per misurarli”!

Oggi in Cina nessuno sa di lui, né del suo grande balzo in alto fantasma.

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Le storie di ‘Cifra tonda’:

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