di Enrico Sozzetti
Quasi 400 metri di altezza, poco più di 130 abitanti, poco fuori dal paese c’è l’Osservatorio naturalistico astronomico (nato nel 1997, è gestito dall’Associazione Astronomia e Ambiente). È da questo crinale fra le valli Curone e Grue che proviene il materiale genetico del Timorasso che negli anni Novanta del secolo scorso è stato utilizzato per fare rinascere il vitigno diventato poi così famoso e apprezzato. Siamo a Casasco, nella cantina di Enrico Mandirola, 40 anni, laurea in Agraria ed Enologia e master in marketing in enologia. Qui, fra botti in legno, bottiglie storiche, un piccolo pozzo alimentato da una sorgente naturale che assicura tutto l’anno la giusta temperatura e umidità, nascono i vini bianchi e rossi di una delle aziende più storiche del territorio. «Questa – racconta Enrico Mandirola – è l’azienda della mia famiglia. Mi sono reso conto, a un certo punto, che se non avessi proseguito io, tutto sarebbe andato perduto, a cominciare dalla storia del vino dei Mandirola le cui origini risalgono al 1913 quando il mio bisnonno Enrico acquistò dal signor Biasei, ricco possidente e proprietario della quasi totalità dei migliori terreni di Casasco, un’azienda fondata agli inizi del 1800 chiamata “Il Muntagnei” (in dialetto significa “piccola montagna”). Allora la proprietà era di circa una dozzina di ettari coltivati a vite, frumento e mais».
Oggi gli ettari a vite sono una decina (tre a bacca bianca, gli altri a bacca nera fra barbera e croatina) per una produzione di circa dodicimila bottiglie all’anno che per l’ottanta per cento sono vendute in Italia e per il resto in Europa (enoteche, ristoranti e privati). Quasi il quindici per cento del vino è commercializzato in bag in box («È un mercato che mantengo perché sono clienti che da generazioni acquistano da noi, prima il vino sfuso che imbottigliavano, ora con i contenitori»). I vigneti creano un unico corpo sul versante destro della dorsale collinare che collega Casasco alla frazione Magrassi. L’orientamento prevalente è a sud-ovest a un’altezza tra i 300 ed i 350 metri. L’età media è di circa 40 anni. Tra gli anni Ottanta e la fine del secolo scorso «è stato acquistato il campo ‘Lù della Costa’ dove nel 1992 è stato impiantato un vigneto di Timorasso, e nel 1998 è stata la volta dell’appezzamento ‘Saröre’ a barbera e moscato. Le uve – precisa Mandirola – provengono soltanto dalle nostre vigne, vinifichiamo senza l’impiego di chiarificanti e limitiamo le filtrazioni per conservare le peculiarità del vino». La proprietà comprende anche undici ettari a seminativo, circa due a frutteto e sei a bosco. Su una parte dei terreni fra Momperone e località Piani di Casasco è stato realizzato un grande impianto di susine, circa quattromila piante, fra i maggiori del Piemonte.
Ma qual è il valore aggiunto del timorasso e della barbera? Certo, l’esposizione e il clima fanno già una profonda differenza, ma quello che rende unico il vino prodotto su questo crinale è il terreno. «Guardi, ecco qui la testimonianza concreta». Enrico Mandirola solleva una scatola ed estrae delle piccole rocce con tracce di fossili e alghe. «Qui una volta c’era il mare e oggi il terreno è ricco di minerali. La composizione pressoché unica favorisce processi molto particolari e la stessa azione del sole determina una maturazione completamente diversa da quella di altre zone». Una delle due denominazioni di Timorasso è il frutto della vinificazione delle uve che arrivano da una delle viti più vecchie della zona. «Le caratteristiche sono uniche. Per motivi di disciplinare – spiega Mandirola – ora la produzione avviene nel totale rispetto delle disposizioni normative, ma quello che le bacche conservano è la storia di filari che quasi cento anni fa erano piantati, in modo alternato, fra bianchi e neri». Il terreno marnoso argilloso conferisce particolare vigore alla barbera, mentre quello calcareo argilloso del timorasso (lo stesso della croatina e del moscato che sono le altre due produzioni dell’azienda Mandirola) è il complice ideale per un vino che sprigiona originalità al punto da essere il favorito, soprattutto quello che proviene dal vitigno più vecchio (una ottantina di anni), dei clienti stranieri.
Un altro valore aggiunto è l’etichetta. Semplicissima, bianca, con la denominazione e il logo dell’azienda che rappresentano gli unici elementi grafici cui si aggiunge una goccia centrale che non è disegnata bensì sagomata sulla carta. L’effetto è originale perché la ‘goccia’ fa brillare il vino, bianco e rosso, grazie al contrasto con il bianco. Il nome accanto favorisce non solo l’identificazione, ma anche la memorizzazione di un prodotto unico per storia e originalità.
«Quello che ho poi creduto giusto fare – conclude Enrico Mandirola – è impegnarmi concretamente sul fronte del rispetto dell’ambiente. Ecco il perché della scelta di materiali riciclabili al cento per cento e di un impianto fotovoltaico per la produzione di energia pulita. Rispetto ai trattamenti, avvengono solo a base di rame e zolfo in polvere e possiamo dire con fierezza che nei nostri vigneti cresce ancora l’erba».