di Enrico Sozzetti
Partiamo da una notizia della scorsa settimana. Durante una riunione della sesta commissione della Regione Piemonte, i consiglieri regionali del Pd, Daniele Valle e Domenico Ravetti, hanno chiesto, e ottenuto, la «calendarizzazione urgente di una commissione in sopralluogo al Teatro Comunale di Alessandria, da svolgere entro il mese di settembre. Una città come Alessandria per dimensioni e importanza, non può restare senza una fondamentale infrastruttura culturale come il Teatro Comunale. A farne le spese sono non solo tutti i cittadini, ma anche e soprattutto gli operatori culturali che da tempo non hanno un luogo adatto per coltivare e valorizzare il loro grande patrimonio espressivo» dice Ravetti che è anche capogruppo regionale Pd. «Il sopralluogo sarà l’occasione per svolgere una riflessione a 360 gradi sull’opportunità di istituire anche ad Alessandria una Fondazione partecipata dalla Regione, per promuovere e sostenere adeguatamente e con continuità le diverse attività di carattere culturale che questo territorio può esprimere» aggiunge Daniele Valle.
Sintesi. Il teatro comunale di Alessandria è chiuso dal 2010 a causa della dispersione di fibre di amianto. Sono stati necessari cinque anni per la bonifica, al termine della quale sono state restituite al pubblico le due sale più piccole che hanno ospitato qualche evento e poco di più. La sala grande è invece rimasta lì, vuota, priva di poltrone e arredi e con una stima di quasi due milioni di euro per il ripristino. La struttura se continua a rimanere chiusa è destinata a restare vittima di un deterioramento inarrestabile. Ma per agire, come i cittadini (non una folla scalmanata, in verità) chiedono al Comune di Alessandria, è necessario avere soldi, che non ci sono, e la disponibilità del bene, che altrettanto non c’è. Il diritto di superficie resta infatti in capo ad Aspal, azienda partecipata del Comune da anni in liquidazione, mentre resta ancora aperta la partita milionaria dei crediti e dei debiti per la maggior parte nei confronti di Palazzo Rosso, oltre a quella di tre dipendenti che avrebbero dovuto passare all’azienda speciale Costruire Insieme. Una operazione resa decisamente difficile a causa dei conti ‘ballerini’ del Comune.
E quindi? Il Pd, che torna ancora una volta sul tema, in realtà si ripete nel tempo uguale a se stesso. Poco più di un anno fa Vittoria Oneto, consigliere comunale di minoranza e già assessore alla Cultura nella giunta di Rita Rossa, e lo stesso Ravetti avevano rilasciato una intervista a una testata alessandrina online in cui ipotizzavano «la creazione di una Fondazione culturale che si occupi della valorizzazione del Teatro comunale e dei musei civici, creando una vera e propria rete che, attraverso eventi e manifestazioni, possa rilanciare il territorio». Che l’idea non sia nuova, lo confermano le parole, sempre di Vittoria Oneto, pronunciate nel 2014: «Appare chiaro che da soli non ce la facciamo, per cui stiamo cercando di coinvolgere Regione Piemonte e Fondazioni bancarie, senza precluderci naturalmente anche il dialogo con altri soggetti». A distanza di cinque anni, il Pd rilancia l’ipotesi della fondazione, con un consigliere che oggi siede nei banchi della minoranza, ma nei cinque anni precedenti era in maggioranza. Morale? Anni trascorsi a ipotizzare. E basta.
Ma sono operazioni così difficili? Nella vicina Asti non è stato necessario molto tempo per vedere diventare realtà la Fondazione Asti Musei, creata dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Asti e con il Comune di Asti entrato poco tempo dopo. Ha iniziato l’attività negli ultimi mesi del 2018 con una mostra che ha registrato oltre 40.000 visitatori. Numeri decisamente invidiabili se paragonati a certi ‘successi’ alessandrini.
Certo è che Alessandria oggi appare sempre più in balia della scarsa memoria, di pensionati investigatori, di esperti in ogni campo (forse manca solo l’astrofisica, ma sicuramente c’è già chi sta studiando) che dicono tutto e il contrario di tutto. Esempi? Il comitato che ha lanciato una campagna contro l’apertura del centro culturale islamico che potrebbe essere costruito al quartiere Europa. Una iniziativa che fra volantini, raccolta di firme, post sui social network, interviste a più non posso ha contribuito ad alzare il tono anche dello scontro politico. Sono solo arrivati con notevole ritardo. La delibera comunale era del maggio del 2018, ne era stato scritto parecchio, con la solita accesa discussione, tanto per cambiare, sui social. Ma evidentemente si legge e si riflette solo a scoppio ritardato (e magari pilotato).
Un altro caso? Il gruppo che è nato su Facebook per girare video e fare «parlare i fatti». Quelli che in realtà ogni cittadino normale ha sotto gli occhi (dalle strade malandate ai giardini non curati, dagli edifici abbandonati alle aree di degrado) e che non sono certo una novità. Anzi. Spesso c’è una responsabilità pubblica (ma il contraddittorio non esiste), però in altri casi il problema è totalmente privato (e anche in questo caso non viene fatto uno sforzo per cercare una spiegazione). Facile dire (e urlare) che tutto va male, molto più difficile è capire le ragioni, individuare le responsabilità, verificare quali possono essere le soluzioni realistiche. Eppure questa attività piace, scatena ogni frenesia, le tastiere sono infuocate (e anche la stampa locale ha un ruolo nell’amplificare), mentre gli approfondimenti e la ricerca del ‘perché’ dei fatti è merce rarissima.
Alessandria oggi è in buona misura questo. Una città che si parla (e sparla) addosso, che insegue il facile ‘mi piace’ (fermarsi a riflettere e costruire un pensiero strutturato richiede tempo e impegno), in cui la politica si rincorre fra slogan a effetto, utilizzando anch’essa lo strumento di Facebook per arrivare alla famosa pancia del cittadino.
Poi c’è l’altra città. Quella che, in mezzo a mille difficoltà, lavora e produce, ma che ben si guarda di entrare in queste discussioni e che osserva con altrettanto distacco la politica. Sono città separate da un solco che si allarga sempre di più. Ognuna segue strade che paiono tristemente destinate a non incrociarsi. Peccato. Perché c’è quella destinata a consumarsi nel lento fuoco dell’autoreferenzialità scarsamente produttiva, l’altra invece proseguirà in un cammino scandito dalla concretezza della vita, quella vera e non virtuale. Ma forse è un po’ il problema dell’Italia, nazione ben poco autorevole e chiusa su se stessa, mentre il singolo italiano (l’imprenditore come il semplice cittadino) all’estero è ancora guardato con rispetto e ammirazione per la storia e la cultura che rappresenta, per quello che fa, per quello che è capace di esprimere.