Le fatiche dei corridori, il senatore Borsalino filantropo e “Rudi non era così rude?” [Lettera 32]

di Beppe Giuliano

 

Racconti dell’età del jazz (terza parte)

 

Per organizzare la corsa del “bugnone” C.C. Pyle ottenne 60.000 dollari dall’associazione che aveva il compito di promuovere la Route 66, affinché i concorrenti la percorressero tutta, da Los Angeles a Chicago, poi svoltassero a nord-est fino al traguardo: il Madison Square Garden di New York.

Il vincitore avrebbe ricevuto un premio di 25.000 dollari e tutte le città sul percorso avrebbero avuto una pubblicità che nessun’altra iniziativa poteva eguagliare. Pyle si aspettava che per questo gli pagassero dei diritti, essendo capace di attrarre milioni di spettatori a vedere “i più grandi maratoneti del mondo”, così come si aspettava grandi introiti dai produttori di scarpe, unguenti per i piedi, creme solari…

Alla fine del primo giorno di gara, dopo che nelle prime ore era stato in testa un entusiasta sessantatreenne, si erano già ritirati 77 concorrenti, una dozzina il giorno seguente, altri 18 il terzo.

Dopo la partenza da Los Angeles i concorrenti iniziarono correndo le 18 miglia fino a Puente, il giorno dopo 38 verso Bloomington, poi 44 per Victoriaville e 36 per arrivare a Barstow. Erano ancora in California, molti avevano già abbandonato, i disagi organizzativi crescevano, e per andare a Mohave Camp e poi a Bagdad (già, quella dell’incantevole film degli anni ottanta ‘Bagdad Café’) in Arizona si doveva salire su un altipiano fin quasi a duemila metri.

Vesciche, sangue dal naso, ferite ai piedi e insolazioni esigevano il loro prezzo.

Il cuoco serviva continuamente agli atleti il “mulligan stew”, lo stufato fatto con gli avanzi, tra il malcontento che cresceva, anche perché i piatti erano sporchi. E ancora era in corso l’attraversamento del rovente deserto del Mojave.

Molte città si rifiutavano di pagare la sponsorizzazione a Pyle, anche perché le folle oceaniche di spettatori in molti posti non si erano proprio viste.

Arthur Newton, il favorito “rambler rhodesiano” come lo avevano soprannominato, dopo 550 miglia aveva oltre nove ore di vantaggio sul secondo ma le condizioni dei suoi tendini d’Achille lo costrinsero a ritirarsi in un posto chiamato Two Guns che oggi è una delle pittoresche “ghost town”: vi rimangono solo il ponte di Canyon Diablo sul percorso della Route 66, un distributore di benzina abbandonato e due grandi serbatoi dell’acqua con su dipinti un cowboy e un trapper.

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Sul Piccolo del 10 marzo 1928 si scrive che il Senatore Borsalino, “filantropico industriale alessandrino”, ha “già depositato presso la locale Cassa di Risparmio la forte somma necessaria per fronteggiare ed attuare il progetto di ampliamento e di sistemazione” della casa di riposo. Alessandria è quella che gli studiosi definiranno “one company town”.

Scrive Giulio Massobrio: “una città la cui vita era scandita dal rituale della sirena della Borsalino, una città che dava lavoro e protezione, nella quale vivere non era sempre facile (e la salita degli operai sulla ciminiera fu un momento epico per la storia civile di Alessandria), ma dove si poteva ragionevolmente pensare di metter su famiglia. Condizioni queste che non durarono da nessuna parte e anche Alessandria iniziò a mutare, prima in maniera quasi impercettibile, poi sempre più veloce e inarrestabile.”

Una notizia conferma l’importanza della fabbrica alessandrina alla fine degli anni venti: il Contratto Nazionale Cappellai sarà discusso sullo schema proposto dai Sindacati Fascisti di Alessandria, “da tempo presentato alla locale Unione Industriale per gli addetti agli Stabilimenti Borsalino”. Come racconta nei suoi volumi Guido Barberis era il momento in cui “la fabbrica toccò il tetto dei 2 milioni di cappelli all’ anno, venduti all’ estero per oltre il 50 per cento”.

Gli “spettacoli cinematografici”, di solito in abbinamento col varietà, sono al Politeama Alessandrino, dove si proietta un film francese “interpretato magnificamente dall’insuperabile artista italiana Francesca Bertini”, al Cinema Moderno e al Teatro Marini. Qui le alessandrine possono sospirare per ‘Il figlio dello sceicco’ l’ultimo film interpretato da Rodolfo Valentino.

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Anche “Rudi” come il nostro corridore Peter Gavuzzi aveva padre italiano (della provincia di Taranto in questo caso) e madre francese, una dama di compagnia.

Emigrato negli Stati Uniti, divenne uno dei più grandi divi dell’epoca del film muto, stella della United Artists, casa di produzione fondata all’inizio degli anni venti dai famosissimi attori Charlie Chaplin, Douglas Fairbanks eroe di “cappa e spada”, sua moglie Mary Pickford la ragazza coi riccioli, e fidanzatina d’America, i “reali di Hollywood” mentre la loro residenza “Pickfair” era “la Casa Bianca dell’ovest” e dal regista D. W. Griffith (la società fallirà negli anni settanta per i costi del colossale, geniale e maledetto ‘I cancelli del cielo’).

Con i suoi ruoli di eroe romantico Rodolfo Valentino divenne il primo grande oggetto del desiderio di milioni di donne, poi dopo la morte improvvisa e precoce nacque un vero e proprio “culto di Valentino” con scene d’isteria collettiva quando il suo ultimo film – appunto ‘Il figlio dello sceicco’ – uscì pochi giorni dopo la prematura morte del trentunenne divo.

Molto si spettegoló su Rudy e la fonte prima resta ‘Hollywood Babilonia’ il libro di Kenneth Alger che guardava la mecca del cinema dal buco della serratura (e che ha pure creato molte leggende urbane): “le voci attribuivano la fine di Valentino alla vendetta dell’arsenico di una dama molto nota nella buona società newyorchese che l’attore aveva piantato dopo una breve avventura… Un’altra diceria affermava che era stato ucciso a revolverate da un marito furibondo e un’altra ancora che era sifilitico” scrive Alger nel capitolo “Rudi non era così rude?”

Le voci più feroci parlavano infatti di “piumini da cipria rosa” e “nascevano dalla ben nota predilezione di Valentino per l’abbigliamento stravagante, per il suo braccialetto alla schiava, senza il quale non si mostrava mai in pubblico, per i gioielli e i profumi penetranti e i cappotti foderati di cincillà, e per la sua intensa civetteria italiana. La sua virilità fu di nuovo messa in discussione quando si venne a sapere che le due donne che aveva sposato erano entrambe lesbiche.”

Comunque, come detto, la sua morte provocò scene di isteria collettiva, suicidi, disperazione di molte attrici, in parte vere e in parte false come il drappello di camicie nere attorno alla salma e la corona con la scritta “Da Benito”, “trovata pubblicitaria di un press agent dell’impresa di pompe funebri” mentre vera e misteriosa è stata “la Dama in Nero che ad ogni anniversario della morte porta un mazzo di fiori al suo mausoleo.”

(segue)

La prima parte.

La seconda parte.